Quelli scontri con Amendola e altri, di Vittorio Foa e Andrea Ranieri

Un altro estratto dal volume curato da Michele Magno 'La libertà e il lavoro', antologia di scritti di Bruno Trentin. Comprende una conversazione con Vittorio Foa. Scrive nella premessa Andrea Ranieri:
 

Il testo che leggerete è il frutto di un pomeriggio di marzo del 2006, una discussione serena tra persone che si stimano e si vogliono bene. Assieme a noi due giovani sindacalisti – Federico Bozzanca e Francesco Sinopoli – a cui si deve la prima sbobinatura della conversazione. Doveva essere la prima di una lunga serie, in cui ripercorrere con Bruno la storia della sua vita e le vicende sindacali e politiche di cinquant’anni di vita italiana. L’idea che ci accomunava era che quella storia parlasse al futuro, e che alcuni dei nodi irrisolti, alcune delle scelte non fatte pesassero ancora sulla storia della sinistra italiana, e che alcune delle idee che Bruno introdusse nel pensare e nel fare del movimento dei lavoratori – idee non sempre vincenti – potessero essere importanti per il futuro del sindacato, e per la politica che ripensava se stessa. Quel pomeriggio restò il solo. Le elezioni incombenti ci distolsero da quel lavoro; ci ripromettemmo di riprenderlo dopo l’estate, ma quell’estate Bruno se lo portò via. Non avemmo per lungo tempo la forza di riprendere in mano la trascrizione di quella conversazione. A lungo sperammo di poterlo fare con lui. Non fu purtroppo possibile. Il periodo in cui la conversazione si svolse non fu per Trentin un periodo sereno.
Si sentiva un po’ messo da parte nella costruzione del programma dell’Unione, ed era preoccupato per le mediazioni puramente verbali concui si tendeva a risolvere problemi seri e complessi. Presagiva che quei nodi irrisolti avrebbero pesantemente segnato il futuro del nostro governo. Ma quel giorno con noi riuscì ad essere insieme puntuale, ironico, allegro. Vorremmo che queste pagine servissero un poco a trasferire a voi tutti, tra le altre cose, la serena bellezza di quel pomeriggio.


Il testo che leggerete è il frutto di un pomeriggio di marzo del 2006, una discussione serena tra persone che si stimano e si vogliono bene. Assieme a noi due giovani sindacalisti – Federico Bozzanca e Francesco Sinopoli – a cui si deve la prima sbobinatura della conversazione. Doveva essere la prima di una lunga serie, in cui ripercorrere con Bruno la storia della sua vita e le vicende sindacali e politiche di cinquant’anni di vita italiana. L’idea che ci accomunava era che quella storia parlasse al futuro, e che alcuni dei nodi irrisolti, alcune delle scelte non fatte pesassero ancora sulla storia della sinistra italiana, e che alcune delle idee che Bruno introdusse nel pensare e nel fare del movimento dei lavoratori – idee non sempre vincenti – potessero essere importanti per il futuro del sindacato, e per la politica che ripensava se stessa. Quel pomeriggio restò il solo. Le elezioni incombenti ci distolsero da quel lavoro; ci ripromettemmo di riprenderlo dopo l’estate, ma quell’estate Bruno se lo portò via. Non avemmo per lungo tempo la forza di riprendere in mano la trascrizione di quella conversazione. A lungo sperammo di poterlo fare con lui. Non fu purtroppo possibile. Il periodo in cui la conversazione si svolse non fu per Trentin un periodo sereno. Si sentiva un po’ messo da parte nella costruzione del programma dell’Unione, ed era preoccupato per le mediazioni puramente verbali con cui si tendeva a risolvere problemi seri e complessi. Presagiva che quei nodi irrisolti avrebbero pesantemente segnato il futuro del nostro governo. Ma quel giorno con noi riuscì ad essere insieme puntuale, ironico, allegro. Vorremmo che queste pagine servissero un poco a trasferire a voi tutti, tra le altre cose, la serena bellezza di quel pomeriggio.

FOA Ho molte domande da fare sul tuo passato. E poi sul presente. Penso molto alla possibilità di una tua autobiografia. All’idea di un’autobiografia alla quale propongo di collaborare, assieme ad Andrea, in maniera indiretta come successe con la mia autobiografia. Ponendo qualche domanda, ricordando anche alcune cose che puoi aver dimenticato. E però i problemi che affioreranno sono anche legati all’oggi. Tu saresti d’accordo?

TRENTIN Vedrei bene anche una riflessione comune su quello che è stata la sinistra in questi ultimi venti anni.

FOA Certamente. Le nostre domande saranno anche riferite a questo.

TRENTIN Proseguendo la discussione che hai avuto con Reichlin e Mafai.

RANIERI Però questa volta senza una destinazione teatrale.

FOA Avrei una domanda un po’ fuori dalla storia sindacale e politica. Tu hai avuto due patrie nella tua vita: nell’adolescenza eri francese, benché fossi di famiglia italiana. Ricordo che eri impegnato politicamente già in Francia, pur essendo un ragazzo. E quando sei partito per l’Italia, accompagnando tuo padre sapevi di fare in Italia un certo lavoro che poi si chiamò resistenza e che certamente ha segnato tutta la tua italianità profondamente. Prima di partire dalla Francia hai detto ai tuoi amici: ritornerò. Mi ricordo questo episodio che mi hai raccontato. E non sei tornato.

TRENTIN Avevo fatto un contratto con mio padre: sarei andato con lui a condizione che, finita la guerra, sarei tornato in Francia.

FOA Che cosa rappresenta la Francia nella tua vita successiva? Che peso ha avuto per te essere stato francese? Intendiamoci: può essere che non significhi nulla, per me l’idea nazionale ha sempre significato molto. Ma era un altro periodo. Combattere contro il nazionalismo voleva dire essere nazionalisti in modo diverso. Non è il tuo caso. Tu eri francese e poi italiano, e a me interessa questo aspetto.
Vorrei invece porre alcune domande che ritagliano un po’ di momenti della tua vita sindacale e politica nella quale tu hai avuto un ruolo da protagonista. La prima domanda riguarda i rapporti con Giorgio Amendola. I tuoi difficili rapporti con Amendola non hanno mai avuto un rilievo pubblico. Però sono alla gente del mestiere perfettamente noti. Era noto il dissenso profondo su fatti e problemi di grande rilievo, sindacale e politico. Tra la tua cultura politica e quella di Amendola e di Emilio Sereni. Alla base di quei contrasti c’erano fatti e problemi che segneranno profondamente la storia della sinistra politica e del sindacato italiano. Fatti e problemi che non ebbero grande rilievo pubblico, perché il partito non era interessato a presentare un contrasto politico, a permettere una aperta lotta politica su quei temi. Ho memoria, magari un po’ vaga ed «esterna», di un Togliatti che evitava di compromettersi sul piano teorico, e stava a vedere senza prendere posizione. Tu potresti essere più preciso.
Poi ci sono due domande che riguardano il tuo lavoro. La prima riguarda la posizione che hai preso contro l’egualitarismo, in un periodo in cui la tua posizione era minoritaria nel movimento sindacale. La tua posizione anticipava problemi e prospettive che solo il futuro avrebbe pienamente chiarito. Vedevi l’egualitarismo in modo completamente diverso da quello che noi vedevamo allora. L’aspetto interessante di questa domanda però è un altro. Ci fu allora un singolare pragmatismo di Bruno, nel senso che nel momento stesso in cui proclamava la sua ostilità all’egualitarismo salariale, lo praticava nei fatti, sostenendo il movimento dei consigli, che fu un grande fatto «egualitario» sul terreno della organizzazione e della contrattazione.
La seconda domanda riguarda il periodo della svalutazione della lira. Che peso ha avuto la svalutazione sul lavoro sindacale? Mi ricordo una domanda che mi fece Baffi un giorno che ero a colazione da Carli. Baffi mi chiese che cosa pensassi della dinamica del valore della moneta. Rimasi allora molto incerto. A me interessa oggi capire qualcosa di più, in modo particolare capirlo da te che in quella fase eri attore di primo piano, mentre io ero già fuori. A me pare che in quel periodo in cui feroce era la svalutazione della lira, il conflitto sociale tendesse a spostarsi dal rapporto lavoro/imprese, ad un rapporto con il governo, con al centro il problema del recupero del potere d’acquisto. Tu sei quello che ha dato un contributo essenziale, seppur attraverso forti contrasti, alla stabilizzazione che poi ebbe luogo nel ’93. Ci sono, in quella storia, dei pro e dei contro con cui ci confrontiamo anche adesso. Ho molte altre domande che riguardano il complesso del lavoro sindacale ed il rapporto sindacato/partito. Ma le vediamo dopo.

RANIERI A proposito della svalutazione, sarebbe importante ragionare anche sul referendum sulla scala mobile. Mi sembra cruciale anche a proposito del rapporto fra sindacato e partito.

TRENTIN Conobbi Amendola da bambino quando lui veniva a Toulouse per discutere con mio padre e con Saragat, che era da quelle parti, sulla possibile nascita di una concentrazione antifascista unitaria. Naturalmente non partecipavo a queste discussioni. Mi impressionò la sua mole e lui era molto affettuoso con me. Ci siamo ritrovati pochi giorni dopo la Liberazione all’assemblea del Comitato Liberazione Nazionale a Milano, e lì cominciava ad essere più burbero. Non ero ancora comunista: ero di GL. Fu allora un breve incontro. Le cose cambiarono successivamente quando nel ’56 lui fu uno dei più scatenati nel combattere la posizione di Di Vittorio sui fatti di Ungheria, e in cui emerse una sua antica diffidenza per il capo della Cgil. Ero stato allora eletto da una nuova maggioranza responsabile della cellula del partito della Cgil. Oggi fa un po’ ridere, ma allora era una cosa importante. Presi il posto, in un rapporto di grande amicizia, di Porcari. Ed in questo modo prendemmo anche la maggioranza della sezione. Fu il momento in cui Di Vittorio e Santi produssero quel documento sul ’56. Fui convocato alla direzione del partito perché ero il responsabile della cellula che aveva appoggiato apertamente il documento. Mi ricordo l’assalto violento che subii non da Longo, che ci aveva convocato, ma da Amendola e da Pajetta. Loro non erano seduti nella stanza in cui io e il comitato di cellula eravamo riuniti con Longo. Entravano ed uscivano urlando senza bussare, per farci capire che dovevamo smetterla con quelle «fesserie». Fino a quando fu portato davanti a noi Di Vittorio che cercò di dire che forse, al di là dei contenuti, avevamo fatto una cosa sbagliata. Era un uomo stremato, che veniva da uno scontro violentissimo con Togliatti. Togliatti, tra l’altro, informò i sovietici, senza presentarla come una propria opinione, di una cosa che si diceva in giro, che Di Vittorio cioè volesse prendere il suo posto. Non era assolutamente vero; ed è grave però che questa voce fosse fatta conoscere ai sovietici.
In quel momento con Amendola ci fu uno scontro molto aspro. Lui si diede da fare per non farmi eleggere nel comitato federale di Roma e ci riuscì. Dicendo tra l’altro che io dovevo tornare a Venezia per un lavoro importante, cosa che era totalmente inventata.
Dopo la cosa si appesantì: vennero gli anni in cui si cominciava a discutere delle trasformazioni del capitalismo. Lui era su una linea pauperistica, di un Gramsci assolutamente mal letto. «Siamo noi che dobbiamo fare la rivoluzione borghese, perché c’è una società senza borghesia o con una borghesia stracciona che non è in grado di fare niente». Una linea a cui sfuggivano le trasformazioni reali del nostro capitalismo. Ci fu al convegno dell’Istituto Gramsci uno scontro molto esplicito e da quel momento lì avemmo sempre un rapporto di amicizia conflittuale. Lui arrivò a ridicolizzare su «Rinascita» la mia proposta di organizzare i disoccupati nelle lotte per il lavoro, e quasi a criminalizzare certe posizioni del sindacato nei confronti dei quadri. Noi ponevamo il problema della loro conquista politica, e lui sosteneva che erano un ceto a sé. Beh, la mia convinzione è che lui era un liberale ma non un democratico. All’interno del partito, e nella sua concezione generale del rapporto tra democrazia e sviluppo economico.
Il dissenso con lui si sviluppò su molti terreni. Lui era convinto che l’unità sindacale riguardasse solo la Uil e non la Cisl, che considerava un nemico. La possibilità di dialogo con i cattolici era un problema di rapporto con le gerarchie religiose, non con un sindacato. Rimase su questo coerente fino in fondo; non capiva quella realtà complessa che era la Cisl. In una riunione di partito a Frattocchie, si schierò insieme a Novella contro i consigli dei delegati irridendo a questa esperienza. Diceva che avremmo fatto un centinaio di consigli contro migliaia di commissioni interne: successe esattamente l’opposto. Ma l’attacco fu molto aspro perché fare eleggere dei delegati su scheda bianca, voleva dire, a suo parere, delegittimare il partito e la sua possibilità di presenza nei luoghi di lavoro. Fino alle sue ultime posizioni sull’Afghanistan.

RANIERI Che posizioni prese?

TRENTIN Fu in minoranza in questo caso, a sostenere che la condanna dell’intervento sovietico fosse un errore. Pensava che la libertà e la democrazia fossero cose per pochi paesi eletti. Nell’Occidente forse, ma non si sapeva bene nel resto del mondo. Questo lo portò sia a difendere in nome della real Politik la «regionalizzazione» dell’esperienza dei comunisti italiani in Europa, sia ad appoggiare l’ingresso dell’Urss in Afghanistan. Era il frutto del suo economicismo: lui era dell’idea che lo sviluppo e la libertà fossero due cose separate.

FOA Ricordo un episodio particolare in cui lui parlò di te senza nominarti mai in modo trasparente. Era una riunione fatta all’«Espres-so» con Rosario Romeo e con Pier Paolo Pasolini; ad un certo punto Amendola disse guardandomi con intenzione: il mio partito non può più dire ad uno quello che vuole che lui faccia, però può impedire ad uno di fare quello che vuole. Si riferiva al momento in cui ti chiesero di non progredire nel tuo lavoro sindacale.

RANIERI Più o meno è un metodo ancora in funzione.

TRENTIN Ricordo ancora la rottura con la Cgil sulla questione meridionale: l’attacco violentissimo che mosse all’astensione sul piano Vanoni, che noi assumemmo come terreno di dialogo possibile con la DC sui problemi del mezzogiorno. C’era l’idea di una programmazione possibile. Su questo lui è stato fino in fondo molto polemico. Soprattutto con Di Vittorio che considerava il vero pericolo.
Sull’egualitarismo: io ero convinto che si trattasse di uno straordinario regalo ai padroni. Che desse loro la possibilità di amministrare unilateralmente il salario di tutte le categorie medio-alte, la progressione professionale dei lavoratori. Ero in questo confortato dalle confidenze della mia controparte, che era allora Mandelli, il quale mi disse che se facevamo l’accordo, come poi fu fatto, sul punto unico di contingenza loro ci guadagnavano, perché sarebbero stati loro a gestire le differenze di qualifica, a fare la politica salariale di tutti i quadri intermedi, dei tecnici.

FOA Sul punto unico chi è che spingeva, Carniti?

TRENTIN Lo voleva Carniti, anche se poi fu Lama ad essere indicato come il protagonista dell’accordo con Agnelli. In realtà Agnelli aveva deciso di dare la sua chance a Carniti. Non era una cosa obbrobriosa: Agnelli voleva correggere gli effetti della scissione della Cisl alla Fiat, a cui lui stesso aveva contribuito. Ma fu un errore, perché il punto unico in quattro anni determinò un gigantesco appiattimento delle retribuzioni, e aumentò lo spazio di governo unilaterale dell’impresa sulle fasce medio-alte del mondo del lavoro, sottraendole completamente alla contrattazione collettiva.

RANIERI Ma questa consapevolezza degli effetti che il punto unico avrebbe avuto sulle dinamiche retributive, e sulla perdita di peso della contrattazione collettiva sulle categorie medio-alte, che tu hai detto essere chiarissima per Mandelli, era anche di Agnelli? Era nella «testa» di Confindustria?

TRENTIN Agnelli era allora il grande capo. Ma se lui ci abbia sul serio pensato, francamente non lo so.

FOA So che Agnelli invitò a colazione un mio amico, un economista che si occupava di questioni sindacali, Franco Momigliano, e gli chiese cosa pensasse del punto unico. Questi rispose che era contrario proprio a causa dell’appiattimento che ne derivava. Personalmente credo che Agnelli pensasse ad un effetto di anticipo alla Ford. Seguendo del resto l’esempio di suo nonno che nel 1922-23 anticipò tutte le rivendicazioni della Fiom, pensando in questo modo di attenuare la conflittualità operaia. Penso cioè ad un atteggiamento culturale, che sta nella migliore tradizione delle relazioni sindacali del fordismo.
Mi interessa capire come e se il sindacato ha fatto una politica di recupero delle differenze fra le categorie.

TRENTIN Non fu facile. Addirittura i più scatenati nella battaglia a favore dell’egualitarismo erano i quadri e i tecnici iscritti alla Cgil, cioè quelli che ci rimettevano di più. Lo facevano per una ragione di classe. Loro sostenevano idealmente questo sacrificio che facevano. Ma fu quello che poi scatenò la corsa a marcare le differenze in tutte le rivendicazioni successive.

RANIERI Nella scuola e nel pubblico impiego, poi, questa cosa si mantenne più a lungo che nelle fabbriche e nelle aziende. È un po’ un paradosso italiano: l’ideologia dell’operaio massa che nelle imprese declina a fronte dei processi di trasformazione, dell’esigenza di confrontarsi comunque coi temi dello sviluppo professionale e della produttività, nel pubblico impiego resiste indomita per un lungo periodo, saldandosi con le tendenze storiche alla autoreferenzialità e alla separatezza di queste categorie. I Cobas sono una sciagurata sintesi di queste due cose.

FOA Sui consigli che ricordo hai?

TRENTIN Nostalgico. Anche se penso che l’accordo del ’93, il fatto di aver messo sulla carta il principio che si faceva un unico tipo di contratto, dal pubblico impiego alle fabbriche, ai servizi, all’agricoltura, e che le rappresentanze sindacali unitarie erano elette in tutti i luoghi di lavoro, mi ha convinto che qualcosa dell’esperienza consiliare rimaneva. Sul referendum penso sia stato un errore.

FOA Lo pensavi anche allora?

TRENTIN Certamente. Il dramma di allora, un dramma che continua, era la difficoltà a misurarsi con la concretezza dei problemi e delle soluzioni. Chiaromonte al Senato aveva condotto una battaglia di grande intelligenza, aveva scomposto il problema dell’aumento dei salari collegato alla scala mobile dal problema del grande accordo centralizzatore, che il mio amico Pierre Carniti aveva imposto praticamente a Craxi, sostenuto in questo da De Michelis. Dovevamo, in quella logica centralizzatrice, negoziare ogni anno il salario per tutti al posto della scala mobile. Questo voleva dire distruggere ogni spazio per la contrattazione nei luoghi di lavoro. Al Senato il decreto legge del governo uscì senza questa parte. Rimanevano due punti di scala mobile che non sarebbero stati pagati per quattro mesi. Oltretutto i lavoratori i soldi di quei punti li riebbero subito nei luoghi di lavoro. I primi a darglieli sono stati gli imprenditori. Il salario reale nell’anno del referendum aumentò più del costo della vita malgrado avessero sospeso l’efficacia della scala mobile. Il referendum a quel punto lì divenne un referendum per quattromila lire. Una cosa a mio parere assurda. Un referendum difensivo, e che svuotava di significato una battaglia parlamentare che aveva ottenuto un grande risultato.

FOA Andrea, tu che ricordo hai del referendum?

RANIERI La pensavo come Bruno. E in particolare ricordo il progressivo restringersi degli spazi di discussione. Per riflettere e per far riflettere non solo sulle possibili alternative a quella scelta, ma sulle stesse conseguenze che quella scelta avrebbe avuto sul futuro del nostro paese, a partire dell’unità sindacale. Quelli che avevano sempre mal digerito l’unità sindacale, e anche i consigli, cominciarono a parlare di unità dal «basso», esibendo come trofei i quadri di fabbrica della Cisl e della Uil che si erano schierati per il referendum.

TRENTIN Il quadro più conservatore della Cgil reagì così, perché il partito, allora, siamo alla fine dell’unità nazionale, colse questa questione come una rivincita. Ricordo una riunione con Berlinguer e trenta quadri della Cgil in cui io cercai di modulare la risposta che dovevamo dare per impedire che la manifestazione della Cgil si caratterizzasse come una manifestazione dei comunisti, acutizzando non solo il conflitto con la Cisl e con la Uil, ma anche coi socialisti della Cgil. Ricordo le parole secche di Berlinguer: «Questo è stato già deciso».

FOA Poi si fece il referendum dopo la morte di Berlinguer…

RANIERI Si sarebbe fatto comunque, ma nessuno avrebbe potuto più rimetterlo in discussione dopo la morte di Berlinguer.

TRENTIN Alle Europee i comunisti ebbero un grande successo, e si pensava ad un nuovo successo.

FOA Invece fu l’inizio della fine.

RANIERI Il referendum fu una tappa nella storia del sindacato dentro la svalutazione. Ma le scelte più importanti avvennero dopo.

TRENTIN L’operazione più «perfetta» secondo me fu imposta al governo, il governo di Giuliano Amato, da Confindustria. Nel ’92 sia Confindustria sia il governo ritirarono la loro adesione dall’accordo di scala mobile che scadeva e quindi non avevamo più controparte. La scala mobile finì così. Due mesi dopo ci fu la svalutazione al 30% senza la possibilità di rivalsa dei lavoratori attraverso un meccanismo che non c’era più. Pagammo allora, con l’accordo del ’92, un prezzo non piccolo, ma che ci portò poi all’accordo del ’93 che in modo più intelligente riusciva a ricostruire, se le parti erano leali, la tutela del potere d’acquisto, e quindi a liberare l’azione rivendicativa nei luoghi di lavoro, senza che tutta la contrattazione fosse inchiodata alla ricostituzione del potere d’acquisto.

RANIERI La differenza tra il ’92 e il ’93. Perché nel ’93 fu possibile quello che non fu possibile nel ’92?

TRENTIN Nel ’92 firmammo un accordo alla vigilia della ferie, il 31 luglio credo. Le principali fabbriche erano già chiuse. Questo fu l’errore che commettemmo anche come Cgil. Farci incastrare in una trattativa che non aveva più il sostegno del rapporto con i lavoratori. Prigioniera di una logica puramente burocratica. Amato era convinto che si andava alla catastrofe. Me lo disse più volte, e lui non voleva essere il primo capo del governo che sconfessava il suo impegno sui buoni del tesoro. Eravamo divisi sia tra Cgil, Cisl e Uil, sia all’interno della Cgil dove la corrente socialista con molta aggressività voleva dare al suo presidente del Consiglio il suo risultato. Non mi dimenticherò mai delle discussioni che abbiamo avuto fra i tre segretari generali e i loro vice. Ad un certo punto Del Turco disse: «Che me ne frega a me della contrattazione articolata?». In questa situazione l’alternativa era quella di non siglare l’accordo, e di sancire così una divisione tragica nel movimento sindacale, che non avrebbe impedito la svalutazione e che avrebbe prolungato negli anni la divisione tra i lavoratori. Ho voluto lasciare aperta la decisione al direttivo della Cgil, perché potesse decidere se la siglatura diventasse firma oppure no. Per questo diedi le dimissioni, perché, siglando, avevo contravvenuto ad un atto del comitato esecutivo che poche ore prima aveva fissato le condizioni ultimative per aderire all’accordo.
Così c’è stato l’accordo del ’92. Ha sancito il blocco totale della contrattazione decentrata e della contrattazione territoriale per un anno, e poi prolungabile. Quindi il disarmo, anche se rinviava ad un tempo successivo una serie di problemi, a partire dalle nuove regole della contrattazione. A questo si aggiunse, e questo fuori negoziazione, la mossa di Giuliano Amato sulle pensioni, a mio parere più difendibile dell’accordo. Il tutto costituì una miscela esplosiva, per cui ci fu una vera rivolta nei luoghi di lavoro, nelle piazze. Fu il momento in cui durante i comizi sindacali volarono i pomodori e i bulloni. Secondo me questo non fece male al sindacato e portò ad una negoziazione con Ciampi di tutt’altro tipo, che non solo ristabilì ma rese obbligatoria la contrattazione nei luoghi di lavoro, che costruì le rappresentanze sindacali unitarie, che garantì una contrattazione sull’inflazione attesa. Cosa che Berlusconi ha cancellato dando unilateralmente i numeri.

RANIERI Secondo te si poteva fare il ’93 senza il ’92?

TRENTIN Devo pensare di si. Il ’92 è stato vissuto dai lavoratori come un fallimento. Prendevamo i pomodori in faccia anche da gente equilibrata. Il blocco alla contrattazione collettiva! Non so se ci rendiamo conto, col 30% di svalutazione! Mentre avevamo avviato col governo Amato un’altra parte dell’accordo che era la concertazione sulla riforma della scuola, sul progetto per la ricerca, sulla privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego. Tutte cose positive, che avrebbero dato i loro frutti successivamente, ma che furono allora travolte dalla dêbacle sindacale. Nel confronto con Ciampi riprendemmo molte di quelle cose. Ma la novità fu quella di riconoscere il ruolo di soggetto al sindacato. Anche nella politica economica, anche nella politica dei redditi, cosa che invece Amato aveva cancellato puramente e semplicemente con in aggiunta, e fu la cosa peggiore di tutte, una mancia di diecimila lire per i lavoratori.

RANIERI Ci fu una parte del sindacato che anche nel ’93 si oppose. Ricordo a Genova un’assemblea con te ai cantieri navali di Sestri Ponente dove andammo sotto. La mia idea è che quella parte del sindacato si sarebbe opposta in maniera ancor più violenta se non ci fosse stato il ’92. Il ’92 servì a far capire quale avrebbe potuto essere la deriva, se non ci fosse stata un’inversione di tendenza, accompagnata da una forte assunzione di responsabilità del sindacato. Il dramma del ’92 non fu irrilevante per la conquista del consenso della maggioranza dei lavoratori nel ’93.

TRENTIN Solo che nel ’92 non c’era una maggioranza nel direttivo della Cgil, non c’era una maggioranza nell’esecutivo della Cgil, non c’era una maggioranza nella stessa segreteria, cosa che invece avvenne nel ’93.

FOA La volontà sindacale concreta aveva due suggeritori: uno era il partito che era prevalente in una quantità di cose, l’altra erano i lavoratori. Le due componenti erano tutte e due ugualmente necessarie, non appariva possibile una senza l’altra. In che modo le hai vissute tu? Tu hai vissuto e promosso la crescita graduale del peso dei lavoratori nelle decisioni. Quando è che hai preso coscienza che queste cose avevano assunto un peso nuovo rispetto al passato?

TRENTIN Un cambiamento ci fu anche da parte del partito, per lo meno di una sua parte. Longo fu, nel ’68-69, il più aperto rispetto ai movimenti. La maggioranza del gruppo dirigente considerava i movimenti una sorta di neodiciannovismo. La cosa si accentuò ancora di più in un rapporto di Bufalini al comitato centrale che diceva che il ’68 era un attacco nei nostri confronti. Nel partito prevaleva una visione assediata. Nel ’92, quando fui chiamato al telefono da Occhetto la mattina dopo la sigla dell’accordo e gli dissi che me ne stavo andando, che avevo dato le dimissioni, lui mi chiese di renderle pubbliche il più rapidamente possibile.

FOA Ti disse proprio cosi?

TRENTIN Proprio cosi. Mi disse che arrivavano telefonate di protesta al partito, e che dovevo rendere subito pubblico il fatto che mi ero dimesso. Risposi che non c’era bisogno di insistere perché io le dimissioni le avevo già scritte. Entrammo in un brutto periodo, in cui Ciampi veniva considerato più un avversario che un amico. Fu il momento in cui, sulla scia del ’92, D’Alema, presidente del gruppo parlamentare, intimò l’uscita dei ministri comunisti dal governo Ciampi, perché il Parlamento, con una decisione palesemente non influenzata in nessun modo dal governo, aveva votato a maggioranza per Craxi, rispetto alla sua possibile incriminazione.

FOA Quando Ciampi fu nominato, D’Alema disse: «Hanno nominato un banchiere alla presidenza del Consiglio, a questo punto siamo arrivati». Questo fu il lapidario giudizio di D’Alema.

TRENTIN Mentre due anni dopo la musica cambia completamente. Mi ricordo che Veltroni, allora direttore de «l’Unità», al quale risposi con una lettera per far correggere quest’impostazione, metteva il ’92 e il ’93 sullo stesso piano, come una grande vittoria dell’unità sindacale. D’Antoni, Trentin, Benvenuto. Era già diventata questa la canzone.

FOA Come mai ci fu un episodio così assurdo? Come ha potuto la votazione per Craxi essere usata contro il governo Ciampi?

TRENTIN Perché in realtà il governo Ciampi fu mal digerito fin dall’inizio da una parte consistente del gruppo dirigente del partito. Per questo si arrivò a questa decisione pazzesca.

RANIERI Pazzesca, e in questo caso non corrispondente alla sensibilità della stragrande maggioranza dei militanti e dei gruppi dirigenti periferici del partito.

FOA Come replicò Ciampi alle dimissioni dei suoi ministri?

TRENTIN Non disse niente in pubblico. A tu per tu mi disse: «Non capisco questa sciocchezza che avete fatto».

FOA Il problema del rapporto partito-sindacato mi sembra molto importante. Chiariscilo ancora se è possibile. Quali erano i canali attraverso cui il partito esercitava la sua influenza? Come mai, anche quando l’elaborazione politica del sindacato divenne autonoma, il partito continuò ad avere un’influenza determinante nella nomina dei dirigenti?

TRENTIN Sì, ma in termini molto diversi da quelli degli anni ’50-60. Ormai la componente comunista era diventata una cosa diversa, una lobby sostanzialmente. Un gruppo di pressione rispetto ad alcuni orientamenti. Nei momenti più drammatici i dirigenti del partito facevano sentire la loro approvazione o disapprovazione, ma non c’era più veramente l’ordine che veniva dal partito. Quando fui eletto segretario generale della Cgil, la decisione fu sostenuta dalla corrente comunista, ma, se ricordo bene, non ci fu nessuna riunione per decidere la candidatura. In fondo fu facile per me pochi anni dopo sciogliere la corrente comunista.

RANIERI A un certo punto venne meno la capacità del partito di influenzare in qualunque modo il comportamento dei propri stessi iscritti nelle vertenze sindacali. Ero segretario generale della Cgil in Liguria ai tempi della crisi del porto e delle Partecipazioni Statali, anni in cui ci fu un mutamento sostanziale della struttura produttiva ed occupazionale della regione. Con tante tensioni nel rapporto coi lavoratori. A volte mi capitava di pensare, a me che non ero iscritto a nessun partito, che sarebbe stato bello avere alle spalle un partito capace di orientare i lavoratori, di indicare loro la direzione della trasformazione. Non l’ho quasi mai trovato.
A volte anzi le articolazioni territoriali e aziendali del partito facevano proprie le posizioni di resistenza al cambiamento.

FOA È comparsa a un certo punto la formula, di per sé abbastanza equivoca, della supplenza del movimento sindacale rispetto ai partiti e alla politica. In che modo è avvenuta la supplenza? È stata la forza del movimento sindacale a indicare delle strade e delle analisi nuove al partito?

TRENTIN Gioca come elemento essenziale l’unità. Se una cosa la proponi con l’autorità di altri dai comunisti, come la Cisl e la Uil, questo ha un peso diverso rispetto allo stesso partito. Quando c’è stata questa unità il partito era fortemente handicappato nella sua capacità di imporre i propri orientamenti. Tanto è vero che si ricorse, talvolta, a mezzi estremi.
Berlinguer fece una riunione con le tre segreterie Cgil, Cisl e Uil sulla questione del fondo sociale varato dal governo Cossiga, e che noi subimmo dato che Carniti lo voleva a tutti i costi. La misura prevedeva che una parte dei soldi dei lavoratori, dopo il contratto, fosse devoluta a dei fondi di investimento per il Mezzogiorno. Ero contrario, perché questo voleva dire perseguire una possibilità illusoria di finanziamento «disinteressato» da parte dei lavoratori, che non teneva conto del fatto che i lavoratori, se investivano soldi loro, volevano un tornaconto certo e rapido. Tanto è vero che il primo sindacato che ha votato contro a stragrande maggioranza era il sindacato insegnanti della Cisl. Ma questo sollevò un problema che riguardava l’autorità del partito. In conflitto con Cossiga, Berlinguer sostenne non di bocciare il fondo di investimento nel mezzogiorno, ma di darne la titolarità ai partiti politici invece che al sindacato. Ci fu su questo una riunione durissima alla quale io partecipai. Però Berlinguer dovette confrontarsi con le tre confederazioni. Lama gli impose questa condizione. Il segretario della Cgil non poteva accettare che su un accordo fatto unitariamente il partito pretendesse di rimettere in discussione la posizione della sola Cgil. «Se hai una posizione da spiegare, una proposta da fare, devi confrontarti con tutti, e non solo coi comunisti della Cgil». L’unità sindacale è stato l’e-lemento essenziale per liberare l’autonomia.

RANIERI La supplenza è stata fortissima nei momenti più acuti di crisi della politica. Nel ’92, dopo tangentopoli, nel ’93 con il governo Ciampi. D’Alema può far dimettere i ministri comunisti dal governo, ma Ciampi il presidente del Consiglio continua a farlo, e l’unità sindacale e il rapporto tra le forze sociali diventa l’elemento fondamentale per fare uscire l’Italia dal dissesto economico e finanziario. Non si andava in Europa senza il patto del ’93, di cui tu sei stato protagonista fondamentale. Quando non c’è l’unità sindacale, la possibilità di fare «supplenza» rispetto alla politica alla fine fallisce. È indubbio che la Cgil di Cofferati ha un ruolo decisivo per scuotere una sinistra stordita dopo la vittoria di Berlusconi nel 2001, ma il suo tentativo di esercitare egemonia sulla sinistra fallisce proprio perché avviene in un contesto di grande divisione del sindacato.

FOA È stata questa la debolezza fondamentale del tentativo di Cofferati.

FOA Savino Pezzotta ha parlato molte volte negli ultimi tempi di una prospettiva sindacale unitaria a livello internazionale, di un sindacalismo del nord e di un sindacalismo del sud da mettere insieme. È difficilissimo, ma bisogna tentare.

TRENTIN Il tentativo è in atto. C’è una trattativa ormai da due o tre anni con la confederazione cristiana che è forte nei paesi del sud del mondo, Sud America in primo luogo, e chi è stato incaricato di governare il negoziato è Emilio Gabaglio, su mandato della Cisl internazionale.

FOA Come vedi questo problema?

TRENTIN Anche in questo caso, come del resto nelle confederazioni italiane, le forze innovatrici sono trasversali. Ci sono delle posizioni nella confederazione mondiale dei lavoratori di grande interesse, che vanno più avanti della Cisl internazionale, rimasta per molti anni un’organizzazione governata dall’Occidente. Adesso tutto cambia. I cambiamenti generano contraddizioni, e qualche volta ritorni all’indietro. Negli Stati Uniti era venuto fuori un sindacato nuovo, che aveva mutato strategia non solo nei confronti dell’Europa occidentale, ma anche nei confronti dei paesi del terzo mondo. Adesso questo sindacato si è spaccato in due. Già rappresentava solo il 7% dei lavoratori, adesso non si sa più cosa rappresenta. Non so cos’è questo nuovo sindacato che è uscito dalla scissione. Il dubbio è che sia molto inquinato da un sussulto delle forze corporative al limite della legalità, come il sindacato dei camionisti. È il figlio di Hoffa che ha guidato la scissione.

FOA I rapporti internazionali della Cgil non sono stati un po’ compromessi dal ritardo con cui si è usciti dalla Fsm, e dal grosso impegno che ha richiesto la presa di distanza da quell’organizzazione?

TRENTIN Il processo di distacco dalla Fsm è indubbiamente avvenuto attraverso dissensi profondi in seno alla Cgil. Ricordo uno scontro aspro per esempio sull’opportunità o meno di mandare una delegazione a incontrarsi con i nuovi sindacati cecoslovacchi imposti dagli invasori. Però non abbiamo atteso la fuoriuscita per mandare nostri osservatori alla Conferenza Europea dei sindacati. Come metalmeccanici avevamo realizzato una unità abbastanza solida con la Federazione Europea dei Metalmeccanici.
Comunque i metalmeccanici italiani uscirono dall’Fsm prima di tutti gli altri, con qualche difficoltà con il partito che non riusciva a capire le ragioni di questa scelta.

RANIERI Mi piacerebbe a questo punto introdurre il tema dei modelli contrattuali. Come nascono, come entrano in crisi, rispetto al modificarsi della produzione e del mercato del lavoro. E cercare di capire con Bruno se oggi siamo di fronte a una crisi, e alla necessità di ragionare su un nuovo modello.

TRENTIN Secondo me ogni modello contrattuale si porta dentro la sua crisi, che può diventare acuta in determinati momenti e rovesciarsi in un nuovo tipo di modello. Francamente, saranno la vecchiaia e un qualche istinto conservatore, non credo che la sostanza dell’accordo del ’93 sia da rimettere in discussione. Quello da rimettere in discussione caso mai sono le modalità dei rapporti tra sindacato e governo. La ricerca dell’accordo sulla politica dei redditi deve poi lasciare liberi i soggetti se l’accordo non si realizza. Se il governo ipotizza, come base per il recupero salariale, l’inflazione al 2,5% e il sindacato dice che in realtà sarà del 3,5%, è meglio non fare l’accordo, perché non si può lasciare uno spazio così grande, su un merito da cui dipenderà la capacità o meno dei lavoratori di fronteggiare gli aumenti del costo della vita. Questo era il senso dell’accordo del ’93. Invece siamo entrati in una fase in cui Berlusconi dà i numeri e li impone al sindacato.
È indubbio che la contrattazione articolata ha fatto un balzo in avanti con l’accordo del ’93. Resta il problema della contrattazione territoriale, che è rimasta ferma ad alcune province dell’industria laniera, dell’industria del cotone, della ceramica a Sassuolo. Abbiamo cioè una serie di esperienze territoriali, che in realtà proseguono le esperienze presenti già da anni nei distretti industriali, che però non hanno proliferato. Credo che dobbiamo trasportare nel territorio tutta una serie di esperienze di contrattazione e di concertazione, sviluppare lì una strategia per l’occupazione, per nuovi indirizzi produttivi. Non c’è niente che ce lo impedisce. Vedo su questo una difficoltà del sindacato, come vedo una difficoltà del sindacato nell’affrontare il problema delle nuove figure contrattuali.

RANIERI C’è chi sostiene che in realtà, anche nei periodi di scontro più acuto a livello nazionale, nei territori la concertazione ha sempre funzionato. Ci sono stati la rottura, il patto di Natale ecc., però sul terreno dello sviluppo locale ci sono stati, ci sono anche oggi, intese ed accordi, a diversi livelli di formalizzazione. C’è chi ha parlato a questo proposito di un mondo A – quello della politica nazionale, dei rapporti tra le grandi confederazioni – e di un mondo B – quello dei territori e delle sviluppo locale. Il secondo è riuscito a trovare intese anche quando il primo era più diviso e conflittuale.

TRENTIN Andrea, non vedo a questo proposito mutamenti significativi. Penso a quello che si è fatto a Biella, a Sassuolo, a Prato, ad alcuni contratti di programma in alcune zone del mezzogiorno, penso a Brindisi. Da 10 anni non vedo un incremento di esperienze di questo tipo. Lo dico pensando anche che ci sia su questo un limite del sindacato, che non riesce ad occupare lo spazio enorme della contrattazione territoriale.

RANIERI Forse non c’è stata più contrattazione formalizzata, ma c’è sempre stato un modo di aggiustarsi oltre le rigidità nazionali. In fin dei conti le cose nei territori funzionavano perché quello che non era risolvibile nei contratti nazionali poi si risolveva all’interno dell’azienda e nei territori, facendo leva sui rapporti di fiducia che lì esistevano, e trovando per questa via una flessibilità sconosciuta ai contratti e alle relazioni industriali nazionali. I distretti industriali sono anche questo. Anche questo spiega, come il discorso che tu prima facevi sull’egualitarismo, la fuoriuscita progressiva di quote di salario e di professionalità dal controllo sindacale. Se non apri spazi di contrattazione a livello decentrato, finisce che gli accordi se li trovano direttamente i lavoratori e i datori di lavoro sul territorio, Qualche volta col contributo attivo dell’Ente Locale.
Quando ci sono stagioni di grande cambiamento, e noi siamo dentro un grande cambiamento, la mossa giusta da fare, e che in altre stagioni della storia del sindacato si è riusciti a fare, è da un lato il rafforzamento del carattere generale del sindacato, e dall’altro la sua capacità di articolazione sul territorio. Altrimenti sei condannato a veder crescere intorno a te le disuguaglianze, senza avere gli strumenti per intervenire.

TRENTIN Il problema è quello della costruzione del sindacato generale nel territorio. E qui c’è forse da ritornare al passato, alle Camere del Lavoro delle origini, che siano in grado di rappresentare tutte le figure intermedie, mobili, che cambiano di professione anche nello stesso anno, e fare del sindacato, della Camera del Lavoro, una rappresentanza generale di tutte queste figure. Tipiche e atipiche. È questa la sfida che non vedo ancora affrontata con chiarezza da parte del sindacato.

RANIERI Al contrario si sta affacciando una tendenza a riportare tutto nelle categorie.

TRENTIN Questa è una linea suicida, che non porterà da nessuna parte. Non contesto che loro siano i protagonisti dei contratti nazionali di categoria. Ma nel territorio possono essere protagonisti solo tutti assieme, e assieme a quelle figure che ancora sfuggono agli inquadramenti contrattuali consolidati, ai lavoratori atipici, alla realtà in rapida crescita dei lavoratori immigrati. E per fare questo non basta contrattare il salario, ma l’assistenza, la formazione, la casa.

RANIERI Oltretutto molte nuove professionalità, che spesso hanno percorsi di lavoro atipici, che cambiano lavoro frequentemente, difficilmente sono rappresentabili dentro uno schema categoriale.

FOA Si discute molto oggi sull’identità del lavoratore, se il lavoro è ancora alla base dell’identità delle persone.

TRENTIN L’identità io la vedo nella libertà del lavoro.

FOA Una volta c’era la categoria, c’era il mestiere, c’era l’attesa di qualcosa entro limiti che erano già fissati. C’era la parola rivendicazione, che ha avuto un senso mutevole nel tempo. Vi è stato un tempo in cui la rivendicazione era tutta per sé, poi la rivendicazione è diventata per sé e per gli altri. Spesso penso che bisognerebbe ripensare questo passaggio, perché esso origina il rapporto tra lavoro e politica, che oggi sembra scomparso. È scomparso oppure c’è ancora, e se c’è dove lo posso trovare?

TRENTIN Nelle rivendicazioni tradizionali questo spazio non c’è più, anche perché questo spazio era fondamentalmente risarcitorio, l’indennizzo e la contropartita della sottomissione dei lavoratori. Oggi ci sono diversi gradi di sottomissione: si va dal ricercatore molto bravo, dal lavoratore molto specializzato, che hanno qualche spazio di autodeterminazione in più, perché possono cambiare lavoro, al lavoratore subordinato, che non ha una professionalità particolarmente pregiata, e che vive l’incertezza della continuità del proprio rapporto di lavoro come una limitazione tremenda della propria libertà.
Ho proposto molti anni fa una figura contrattuale nuova, il contratto di progetto, che può essere una cosa ignobile come quella che hanno fatto nella legge 30, e può essere un nuovo tipo di contratto in cui in cambio della presenza sul luogo di lavoro e della remunerazione, il lavoratore contratta l’oggetto del proprio lavoro, i contenuti della prestazione, il progetto che deve essere realizzato e le modalità di realizzazione. Il che renderebbe possibile riaprire il confronto sulla organizzazione del lavoro nell’epoca del post fordismo. Quando è interesse anche dell’impresa mobilitare la creatività, l’intelligenza delle persone che lavorano. Credo possibile questo tipo di evoluzione, ma sarà molto difficile, perché mette in discussione l’autorità dell’imprenditore che deve cedere un pezzo di potere per poter stipulare un accordo.

RANIERI L’identità del lavoro è anche messa in discussione dall’ulteriore allentarsi del rapporto tra il denaro e i meriti. Il denaro misura in maniera sempre più debole le capacità e l’impegno delle persone. La crescente finanziarizzazione dell’economia è alla base di questo fenomeno, con effetti terrificanti sui differenziali dei livelli di reddito e salariali, che sono anch’essi un attacco all’identità e alla dignità del lavoro, perché un differenziale fra uno e cinquanta può essere a fatica ricondotto sulla scala dei meriti e delle capacità, non fra uno e l’infinito.

FOA Ma le confederazioni non hanno posto al governo il problema di misurare lo sviluppo sulla base della produzione di beni e di servizi concreti, e non soltanto attraverso la borsa?

TRENTIN Le cose vanno in una direzione diversa. Pensa al modo di concepire le cooperative, che sono facilitate fiscalmente perché non ridistribuiscono gli utili, ma che poi possono aderire ad una società per azioni, il che consente, tramite la società per azioni, una ridistribuzione dei redditi fantastica, come il milione di stipendio che prende Consorte.

RANIERI È difficile trovare in un’impresa industriale un differenziale così alto tra un manager e un lavoratore come quello che c’è tra Consorte e un socio della cooperativa.
Nascono in questa logica i manager superstar, quelli che sono in grado di spostare miliardi da una parte all’altra e realizzare plusvalenze enormi. A questi è garantito un livello di riconoscimento economico non parametrabile in nessun sistema di inquadramento. L’altro grande mutamento è che la responsabilità del manager si è spostata decisamente dalla responsabilità verso i dipendenti e l’impresa alla responsabilità verso gli azionisti. Non sei più responsabile verso l’azienda comunità, sei responsabile solo verso gli azionisti, per cui la tua considerazione del lavoro, la tua capacità di confrontarti con i problemi concreti, e per questa via far crescere l’impresa, non è più l’aspetto più rilevante della tua professionalità. Questa è forse la svolta pratica e culturale più importante.

FOA Secondo me una delle cause della depressione dei salari è proprio questa.

RANIERI Tra l’altro, mentre la distanza tra la mediana e i livelli di reddito più bassi resta più o meno costante, aumenta a dismisura la distanza tra il quintile più alto e la mediana. È un dato che misura l’impoverimento economico e sociale di quelli che venivano chiamati ceti medi.

TRENTIN I parametri della crescita di un paese vengono completamente sconvolti. Non è più la produttività del lavoro il parametro, ma il rendimento finanziario.

FOA I governi possono avere qualche influenza su questi processi?

TRENTIN Certamente, però è difficile. Negli Stati Uniti negli ultimi quindici anni la media di permanenza dell’amministratore delegato è precipitata da 10-15 anni a due. Accumulano redditività sul piano finanziario, ricompensano gli azionisti, e poi siccome sanno di non aver effettuato investimenti in grado di far durare questa redditività nel tempo, se ne vanno prima che le cose peggiorino. È un fenomeno generalizzato
Premiare diversamente gli investimenti di lunga durata rispetto agli investimenti a breve potrebbe essere una prima risposta. Abbiamo un dramma doppio in Italia, dato il grande numero di piccole imprese, che più delle altre hanno difficoltà a investire sulla ricerca, sulla innovazione, sulla formazione, che sono gli unici che possono consentire la durata. Trovare nuove forme di organizzazione e pensare a un intervento pubblico nella ricerca, nell’innovazione tecnologica e nella formazione rivolto alla piccola impresa è la cosa più urgente da fare, altrimenti andiamo al disastro.
RANIERI In un nuovo patto sociale per lo sviluppo la cosa più importante dovrebbe essere proprio il sostegno pubblico agli investimenti a redditività differita, e il sostegno agli investimenti in ricerca, innovazione e formazione dovrebbe rimodellare l’intero sistema degli incentivi alle imprese, diventare il parametro degli stessi sgravi contributivi.

TRENTIN E a questo dobbiamo associare nuovi diritti per i lavoratori, come il diritto alla formazione permanente, se vogliamo provare a correggere i danni che, anche per nostra responsabilità, ci sono stati in questi anni.