TERZA PARTE DELL'INTERVISTA A FRANCO FERRAROTTI
Il 22 ottobre 2024, poche settimane prima che il suo cuore cedesse, abbiamo incontrato il professor Franco Ferrarotti, che ancora non esitiamo a definire un gigante del pensiero contemporaneo. Abbiamo registrato una lunga intervista, la cui prima e seconda parte abbiamo pubblicato sul nostro sito e nella newsletter precedente. In questa terza parte abbiamo selezionato i passaggi nei quali Franco Ferrarotti insiste sui processi storici e sociali determinanti dell’età contemporanea, con uno sguardo attento e critico, tra filosofia, sociologia, economia.
Nella seconda metà del Novecento, soprattutto su impulso delle correnti esistenzialistiche, la filosofia europea si interrogava sul senso dell’altro. In Italia, la scuola torinese di Nicola Abbagnano tentava una sorta di “esistenzialismo positivo” che si contrapponeva alle teorie pessimistiche tedesche avanzate da Heidegger e Jaspers, cercando nel “neo-illuminismo” il fondamento stesso della libertà umana. Dall’altra parte delle Alpi, in Francia, il filosofo Emmanuel Levinas costruiva un intero paradigma filosofico sul tema della responsabilità, non solo etica, ma perfino trascendente, verso l’altro da sé. Nel corso della intervista con Franco Ferrarotti entrambe queste due tradizioni sono emerse con estrema lucidità, e il professore ne fece oggetto di una riflessione filosoficamente puntuale, coraggiosamente e generosamente rivolta a coloro che si occupano di sindacato e di sociologia.
“Ma qual è lo spirito del nostro tempo?”, si chiese il professor Ferrarotti, quasi a voler introdurre l’enorme tema relativo al senso della nostra contemporaneità.
“E allora, ecco la nostra grande contraddizione oggi, da seguire secondo la prospettiva di Giuseppe di Vittorio, del quale non cesso di ammirare, non direi solo la consapevole lungimiranza, ma soprattutto l'istinto. Oggi una grande azienda è una struttura di dominio, non più collegata con i proprietari, perché il dominio di oggi esige la conoscenza degli arcani del mercato e degli arcani tecnici, dell'energetica e dello stesso momento produttivo. E allora noi abbiamo un nuovo personaggio emergente. Noi siamo passati dall'operaio in tuta blu all'operatore in camice bianco. Nello stesso tempo siamo passati dalla proprietà privata dei mezzi di produzione a un divorzio tra proprietà e funzione. E questo divorzio è importante. Il nuovo uomo o donna di potere è il chief executive officer, il ceo. E nello stesso tempo, la grande società multinazionale, priva di una base territoriale, aterritoriale, questa forza che cambia il modo di vita in intere regioni, trivella, scava, se ne va, e viene ancora considerata secondo un domicilio privato. SI tratta però di una grande società multinazionale con una funzione pubblica, ovviamente politica, che non ha alcuna responsabilità. Infatti, non si sa neppure chi siano i padroni e agenzie delle entrate non riescono neppure a far loro pagare le tasse. Straordinario. Quindi, noi siamo in presenza di una situazione in piena trasformazione. Si deumanizza il potere, si deumanizza il valore, e si esalta la tecnica. In questa dinamica, dunque, la tecnica diviene un valore in sé, ma dimentichiamo che essa è un valore strumentale. Come valore strumentale dovrebbe essere governata, guidata, e invece si presume che è autonomia. D'altra parte, la tecnica, quando viene considerata principio guida, può soltanto portare a una potenza senza scopo, deumanizzata. Così, La società di oggi, la società planetaria di oggi, si sviluppa e non si sa verso cosa. Di qui un disorientamento tremendo, che viene sperimentato dai giovani. Perché i giovani sono le antenne sensibili e indifese, e sono anche le vittime del cambiamento. Basta pensare ai contratti a termine”. Si apriva, per noi che lo ascoltavamo, la grande questione del potere trasformato e deumanizzato nella nostra attuale società, con il corollario della tecnica che diviene feticcio, autonomo, e con una vita propria.
“Voi mi aveste chiesto un ritratto, un quadro della società di oggi”, proseguì il professore. “Noi siamo in una situazione in cui il potere, il cambiamento è nelle mani di grandi aziende in cui è avvenuto il divorzio fra proprietà privata e funzione manageriale. D'altra parte, queste grandi aziende sono determinate da un principio soltanto, l'innovazione tecnologica fine a sé stessa. Perché noi siamo passati, e voi lo ricordate, e io lo ricordo, attraverso i famosi tempi dello scientific management, la direzione scientifica, l'MTM, la misurazione di tempi e metodi, l'ingegnere di Filadelfia, il principio della one best way. Oggi, c'è un solo modo migliore per fare un'operazione, non ci sono altri. Quello che conta è la velocità, meno tempo per produrre. Ah, sì, meno tempo. Chi lo decide? La direzione aziendale, perché i sindacati non cercano niente. La decide e gli operai devono eseguire. (22:44) E gli operai dicono, ma questo si potrebbe fare? No, no, no, non perdete tempo, voi dovete lavorare. C'è qualcun altro che è pagato per pensare, voi non dovete pensare”. Era la diagnosi disincantata della trasformazione deumanizzante, e desindacalizzata dei tempi dell’industria moderna.
“Tempi moderni. Ma che cosa tiene insieme questa società? La comunicazione, ma è una comunicazione elettronica, strettamente autoreferenziale. Esclude, elimina l'altro, elimina il linguaggio del corpo, elimina l'opera, elimina il gesto. Elimina l'amore. Quindi siamo in presenza di un mondo che tende a far valere, anzi a far prevalere, la razionalità formale, burocratica, fittizia, sulla razionalità sostanziale. Perché abbiamo commesso un grave errore, abbiamo confuso i valori strumentali con i valori finali. Ma quali sono i valori finali? Uno solo, l'uomo. Mai come strumento, solo come progetto. Peccato. Tuttavia, a questo punto evidentemente sorge, voi lo sapete meglio di me, un compito nuovo per i sindacati. Sempre sulla scia di Di Vittorio, che predicava la centralità della conoscenza, ma anche dei professori, della scuola, della formazione. Non essendoci la formazione, c'è il social, la grande comunicazione democratica delle stupidità. Giordano Bruno, se fosse ancora fra noi, riscriverebbe il nuovo Spaccio del bestione trionfante. E qualcun altro dovrebbe scrivere il nuovo Leviatano però. Io aspetto con ansia che sorgano intellettuali di tipo nuovo, che non sono quelli che scrivono i messaggi, gli interventi, le recensioni, per essere eternati. Adesso c'è qualcosa d’altro, tutto è cambiato. Siamo in presenza di una straordinaria se si vuole anche potenzialmente rivoluzionaria, potenzialmente rivoluzionaria epoca, una nuova epoca, che sarebbe addirittura post-comunista, post-marxista, post-tutto quanto”. Ed è a questo punto che l’analisi filosofica di Franco Ferrarotti diventa un vero e proprio allarme sulle forme che può assumere il neo-totalitarismo, nella sua coincidenza con il potere della tecnica che esclude la ragione sostanziale e il valore sociale del lavoro.
“Ad un certo punto della mia vita ho incontrato Nicola Abbagnano e dopo noi siamo diventati amici carissimi. E lui a un certo punto mi dice: è interessante questo che dice. Venga a trovarmi, in via Talucchi. Io gli dico, dove, dove? Venga qui a Torino, in via Talucchi. Io vado a trovarlo. La seconda moglie era un'americana, come mia moglie, allora c'è stata subito empatia. E lui allora ha detto, ma noi che facciamo? L'uomo non nasce libero e non è ovunque in catena, no. L'uomo nasce condizionato. Ci vuole uno che tagli i cordoni meccanici. E lui allora, e chi studia le condizioni? Io gli ho detto, ma è ovvio, la ricerca sociale. E così è nata una collaborazione con i suoi più stretti collaboratori, assistenti, tra i quali Pietro Rossi. Quello di Abbagnano, grazie un po' anche all'apporto sociologico, era l'esistenzialismo positivo, con tutti i limiti. Questo confronto proseguì con la comunità di fabbrica. Oggi cos'è? E che cos'è la comunità?”. Per spiegarlo, Ferrarotti ci raccontò l’episodio con Adriano Olivetti che in qualche modo gli segnò l’esistenza.
“II 27, mi sembra febbraio, 1960, Adriano Olivetti da Milano prende il treno per andare a Ginevra. Da Ginevra a Losanna per trovare la sua donna del momento che era una svizzera di Basilea chiamata Heidi Yerman. Mi telefona mentre era col piede sul predellino del vagone. Stia pronto! Stia pronto, mi raccomando! Ma lei si tenga pronto! Il 7 marzo. Partiremo tutte e due, lei verrà con me. Partiremo, andremo a Hartford, nel Connecticut. Nel Connecticut c'è l'Underwood. Io ho ormai in mano la maggioranza delle azioni della società Underwood. Te la ricordi, no? Vabbè, io sono pronto, per carità, vengo volentieri. No, no, no, lei deve aiutarmi. Perché? Noi prenderemo l'Underwood a 18 linee produttive. Useremo le loro linee di distribuzione per distribuire i nostri prodotti di Ivrea in quell'immenso mercato. Quando Olivetti morì, gli trovarono un foglio di cui io dovrei avere persino la fotocopia. Chiamate con urgenza Ferrarotti per la questione proprietaria. Perché qual era l'idea? L'idea era che noi avremmo finalmente capito la contraddizione che un'azienda moderna oggi, con le componenti elettroniche, non può più essere governata come domicilio privato. Occorreva trovare un concetto di proprietà con una quadruplice radice. Primo, la componente tecnologica, Politecnico di Torino. Secondo, comunità di origine, comune di Ivrea. Terzo, partecipante al ciclo produttivo. Quarto, ciò che oggi lo chiamano appunto Chief Executive Office, l'amministratore delegato. Credo che qualcuno abbia detto: Olivetti, di fronte a questo programma, è morto al momento giusto. Olivetti è morto al momento giusto, perché noi si aveva in mente una concezione nuova della proprietà delle grandi aziende che cambiano la vita degli esseri umani, che non era più né privata né pubblica, ma una sorta di quadruplice radice che le legava, però le riconosceva alla comunità di origine. Quel momento fu straordinario perché alcuni esseri umani hanno rapporti non utilitaristici, rapporti puramente umani. Basati su che cosa? Su quello che oggi non c'è più, l'amicizia, la simpatia. Bisogna socializzare il potere. Lui diventa l'operaio, cioè diventa responsabile, perché sa che se non lo è, fa il proprio danno. Questa era la nuova azienda, quello che noi chiamavamo, la ISA, Industria Sociale Autonoma”. Con questo ricordo, il professor Ferrarotti ci congedò, con queste parole: “Dobbiamo tornare nei luoghi di lavoro perché siamo al di là della politica, della politica come procedura. Siamo molto al di là. Siamo in un mondo nuovo, in un mondo che io certamente non vedrò. Io vi ringrazio molto”.