Quella borsa miracolosa, Gian Paolo Baretta

Nel suo collocarsi alla ricerca di un punto di sintesi, nella sua capacità di non temere il nuovo e di guidare i processi della realtà per condurli verso una esplicita visione etica e culturale della società, in questo si riassume il contributo di Bruno Trentin alla storia del sindacato italiano.

Appartengo ad una generazione fortunata che si è formata al calore di grandi valori e di smisurate prospettive. In un’epoca, quella a cavallo tra la fine degli anni ’60 e buona parte del decennio ’70, di forti tensioni ideali, di passioni etiche coinvolgenti: sincera, esplicita, generosa. Un’epoca che, attraversata da esasperate e laceranti contraddizioni culturali, politiche e sociali, ha finito per far sì che le diverse, spesso opposte opinioni, volgessero più allo scontro che all’incontro.

Ma, ad onor del vero ed in memoria di Bruno Trentin, se penso al sindacato, il conflitto, aspro e diretto, era, quasi sempre, occasione di conoscenza reciproca, di scambio, di ricerca e, spesso (più spesso di quanto oggi si possa immaginare), motivo di amicizia tra persone diverse per cultura, scelte di vita privata, credo religioso.

Questo sodalizio è stato possibile, perché a dividerci erano le opinioni, le idee, ma non la fede nei comuni ideali di giustizia, libertà, uguaglianza, nell’importanza dei compiti e del ruolo del sindacato. Una fede esplicitamene ancorata ad una concezione forte della responsabilità. In Trentin, in particolare, era, ed è sempre stata, lampante la correlazione tra diritti e doveri, tra opportunità e solidarietà, tra piacere ed impegno, tra militanza e professione.

In questo tratto distintivo di una formazione pluralista e liberale, la “classe operaia”, pur collocata al centro della riflessione teorica e della rappresentanza, non offuscava, non sostituiva, non annullava lo Stato, il Paese, la comunità.

Quella fortunata generazione ha avuto i suoi maestri, i buoni maestri e Bruno è stato uno di loro. A me è capitata una fortuna maggiore. Ero molto giovane e fui chiamato, nel 1973, a dirigere l’ufficio formazione nazionale della Fim. Varcai, a 23 anni, la soglia di Corso Trieste 36, la Flm, e vissi tre anni straordinari a contatto diretto con il gruppo dirigente dei metalmeccanici di allora. A dirigere quella incredibile fucina, amata o mal sopportata dentro il movimento sindacale e nei partiti, c’era, come la chiamavamo noi giovani poco rispettosi dell’autorità, la “Tbc”: Trentin, Benvenuto, Carniti.

Quando, nelle riunioni degli organismi unitari, nel fervore della dialettica, Bruno alzava la mano, anzi distendeva il braccio diritto, levato, per chiedere la parola, la sala zittiva e si formava una attesa di ascoltare, accompagnata dalla sensazione precisa che, dopo, ci sarebbe stato ben poco da replicare. “Roma locuta, causa finita”, ripeteva ironicamente un autorevole collega della Fiom, che poi si ostinava, talvolta, a replicare ulteriormente, ma ben cosciente che, il suo, era più un ostinato esercizio di democrazia formale, che una reale possibilità di modificare il corso e l’esito della riunione, inesorabilmente segnato dal taglio che Bruno Trentin vi aveva impresso con il suo intervento.

Appassionato, quanto approfondito, l’argomentare di Trentin non distingueva se il tema in discussione era di primaria importanza o, in apparenza, secondaria. Ogni discussione meritava un ragionamento, una correlazione, un contesto. E se non lo meritava, Trentin non interveniva. Ma questo non è il comportamento di un’epoca, bensì quello di una vita. E’ uno dei molti insegnamenti che ci ha lasciato. La superficialità, l’approssimazione, il lassismo sono atteggiamenti ed errori che il dirigente non si può permettere. Lo studio, la formazione, la struttura logica del pensiero, la precisione nel linguaggio sono un dovere per il sindacalista. E costituiscono il monito ed il compito che egli lascia a ciascuno di noi.

Ogni comportamento ha la sua simbologia. Quella del Trentin sindacalista non era, a mio avviso, la famosa pipa, né il moschettone o la corda con i quali siamo saliti sul Paterno e sulle tre cime di Lavaredo, durante le pause dei corsi di formazione di Misurina, ma la borsa. La borsa di Bruno Trentin, come quella di Mary Poppins, conteneva di tutto: libri, giornali, documenti, oggetti. Ogni tanto affondava le mani e ne usciva un paralume con il quale metteva un po’ di luce in un angolo oscuro della vita sindacale, o un regolo con il quale ordinava i passaggi delicati di una decisione da prendere. Più spesso ne usciva un telaio sul cui ordito Bruno tesseva pazientemente la trama di una vicenda, di una storia.

Fu così nella mancata convocazione del congresso di scioglimento della Fiom. Che delusione ne avemmo allora, noi giovani militanti della Fim, che appoggiavamo Carniti e che speravamo in Trentin. Capimmo poi, e questo è un altro degli insegnamenti che Bruno ci lascia, uno dei più importanti, che la storia e la politica non sono solo il risultato della volontà individuale del demiurgo, ma soprattutto il fluire di processi profondi, talvolta carsici, più raramente impetuosi. Un insieme di storie e dinamiche collettive che interagiscono tra loro e segnano il corso degli eventi. Da essi non si prescinde.

Fu così negli anni dolorosi del terrorismo, in quelli contraddittori, ma che, anch’io, considero fertili, degli anni ’80, quando ci dividemmo sulla scala mobile, ma gestimmo, insieme, una delle più imponenti ristrutturazioni industriali della storia italiana, affermando una visione riformista: non comportandoci come Scarlett, ma impedendo comportamenti alla Thatcher. Il contributo di Trentin è stato, in quei frangenti, fondamentale.

Fu così negli anni ’90, con la sofferta, ma tutt’ora di esempio, per noi protagonisti di oggi, vicenda degli accordi del ’92 e del 23 luglio ’93.

Fu così nella lunga ristrutturazione della Fiat che è stata per me, che seguivo allora il gruppo torinese, l’occasione di un rapporto
maturo con Bruno. E ricordo bene la tagliente, com’era nelle sue abitudini, critica pubblica che mi fece in occasione di un passaggio della vertenza di Termoli. Ma ricordo anche, con dolcezza, l’affetto che emanava il suo sguardo in occasione degli incontri per orientare le nostre decisioni.

Non fu così, e restano da capirne le ragioni, per la rinuncia a dar vita, in quel periodo, ad una nuova stagione di unità sindacale, probabilmente possibile. Forse, la politica interna, pur massacrata da tangentopoli, ebbe più peso nel condizionare i processi che non la recente, liberatoria caduta del muro di Berlino o, forse, i segni delle divisioni tra i sindacati avevano minato le credibilità reciproche.

In questo collocarsi alla ricerca di un punto di sintesi, sempre instabile, nel costante equilibrio-squilibrio tra l’evolversi naturale dei processi strutturali e loro accelerazione (si sarebbe detto una volta nel rapporto tra le avanguardie ed il popolo) si riassume lo straordinario contributo di Bruno Trentin alla storia del sindacalismo italiano e del movimento operaio in generale.

In questo approccio sistematico vi era una evidente ansia verso il nuovo, temperata dallo scetticismo della ragione, che non ha mai offuscato l’ottimismo della volontà. La novità, l’innovazione non fanno paura, perché sono parte del presente e componenti della costruzione del futuro. Ma, non bisogna farsi guidare, bensì mettersi alla guida di questi processi, condurli verso una esplicita visione etica e culturale della società.

Il rapporto fertile tra Bruno Trentin ed il mondo cattolico, soprattutto con il sindacalismo di matrice cattolica, va compreso in questo snodo della sua personalità. La ricerca del dialogo, il riconoscimento dell’altro come persona, la coscienza che esiste un “bene comune”, che ha al centro il lavoratore, l’emarginato, l’ultimo, ma che non si esaurisce nella rappresentanza parziale di interessi.

Tutti questi elementi sono stati motivo, negli anni, di confronti liberi ed onesti, di differenze esplicite e senza pentimenti, ma, soprattutto, della costruzione di un impianto culturale comune che può e deve costituire il portato di una nuova stagione di rilancio del sindacato italiano.

Se ne sente il bisogno! Si sente il bisogno per il sindacalismo italiano ed internazionale, soprattutto europeo, di consolidare una strategia riformatrice capace di cogliere le straordinarie novità che attraversano il mondo del lavoro e viverle, innanzi tutto, come opportunità e non come condanne; capace di esercitare una critica intelligente alla evoluzione del capitalismo globale per affermare una democrazia economica in grado di rendere compatibili crescita, mercato e giustizia. .

Si sente, di conseguenza, il bisogno di formare, al più presto, una nuova generazione di giovani sindacalisti, la cui cassetta degli attrezzi li metta in condizione di rilanciare con efficacia la contrattazione a tutti i livelli e di assumersi delle responsabilità nelle organizzazioni, per prepararci a lasciare loro il testimone che noi abbiamo raccolto, spesso direttamene, dai padri fondatori.

Si sente, infine, il bisogno di realizzare, al più presto, una autonoma, solida e condivisa visione della rappresentanza sindacale e delle sue regole, non rinchiusa in se stessa, ma allargata al pluralismo dei soggetti e di genere.

A questo rilancio dobbiamo dedicare tutte le nostre energie. Sarà il nostro modo di ricordare ed onorare i molti militanti e dirigenti, oscuri o celebri come Bruno, che ci hanno permesso, con le loro idee e le battaglie civili, di crescere in un paese libero e democratico e di partecipare alla meravigliosa vicenda collettiva che è il sindacato.

Ha detto il profeta Ezechiele: “Se un uomo vivrà secondo il diritto e la giustizia
questi è un giusto e vivrà di vera vita” (Ezechiele, 18, 1-9).

Gian Paolo Baretta