Bruno che sapeva parlare agli operai, Intervista a Cesare Damiano

Nel suo ufficio, ministro Damiano, ha portato solo due foto, una la ritrae con Bruno Trentin.
«Si, sono foto che mi seguono nei vari traslochi. Un’immagine di un corteo di Mirafiori, del 1975; l’altra mi ritrae con Bruno Trentin. Era il 1991, Bruno era venuto per la celebrazione del centenario della Camera del lavoro di Torino. Sono immagini che mi riportano a una situazione che vivo sempre con commozione, e mi riportano a Bruno Trentin, come persona, come dirigente sindacale di altissimo profilo, un maestro per tutti noi».


Qual è stata la sua lezione?
«Negli anni 70 si sono fatte le più importanti conquiste contrattuali, Trentin era alla guida della Fiom. Sono anni di forte innovazione, dell’inquadramento contrattuale, delle 150 ore, dei diritti di informazione sull’impresa che dovevano far diventare i lavoratori -come scrisse in un famoso libro- «Da sfruttati a produttori», cioè consapevoli del proprio ruolo. Trentin fu un grande innovatore».
Che cosa è rimasto del suo tratto nel movimento sindacale di oggi?
«Moltissimo. Si pensi solo al passaggio della Cgil - che avvenne con Trentin segretario generale - da un sindacato ancorato alla vecchia logica dell’appartenenza partitica, al sindacato di programma, dei diritti. Il sindacato che coglie la trasformazione e guarda avanti in una fase molto difficile, in cui si trova a un bivio: confermare la sua vocazione confederale, o correre il rischio di regredire nel corporativismo. Credo che la più importante lezione di Trentin stia in questo, e nell’idea di governare il cambiamento invece che reagire con logiche propagandistiche».
Trentin viene descritto come un intellettuale, non si è visto in lui un trascinatore di masse. È d’accordo?
«No. Era indubbiamente un intellettuale. Ma l’ho conosciuto quando ero un giovane funzionario della Fiom, lui venne a Mirafiori per il contratto del 1973. Ricordo l’assemblea del primo turno alle Carrozzerie, quella più difficile, in grado di dare il via all’approvazione del contratto o alla sua bocciatura. Erano assemblee in cui bisognava confrontarsi con migliaia e migliaia di lavoratori che avevano espresso una forte partecipazione e si aspettavano un risultato. Trentin sapeva convincerli con il ragionamento, non con la demagogia. Quell’assemblea approvò l’accordo quasi all’unanimità».
Come visse invece l’esperienza del 1980?
«Ai cancelli della Fiat cercò con grande forza e coraggio di convincere i delegati, le cosiddette avanguardie, ad abbandonare la lotta ad oltranza e mantenere la lotta articolata: come si diceva allora “lavorare un’ora per il pane e un’ora per il latte”, per poter durare di più e portare a casa un risultato. Purtroppo prevalse un altro orientamento. Trentin non era una sorta di aristocratico isolato dai lavoratori. Al contrario, andava al contatto, era un uomo che andava controcorrente quando era convinto delle sue opinioni».
Fu protagonista dei due primi accordi di concertazione: firmò e si dimise, poi firmò ancora. Era o no fautore di quel metodo che allora era al debutto?
«Assolutamente un fautore ma visse, come noi vivemmo, l’accordo del ‘92 come un risultato che avrebbe impedito la contrattazione di secondo livello che giustamente Trentin difendeva. Nel ‘93, l’accordo con Ciampi ripristinò il diritto alla contrattazione e segnò una nuova stagione sindacale, un modello che dura tutt’ora».
L’ultima applicazione lo scorso 23 luglio. Lei questa volta lo ha vissuto da un altro punto d’osservazione. Le riserve della Cgil non mancano eppure ha firmato. Secondo lei Trentin avrebbe approvato il protocollo?
«Immagino di si, anche se il rispetto per chi non c’è più impone di evitare interpretazioni di sorta. In ogni caso, questo protocollo è profondamente diverso da quello del ‘93: quello era il tempo del risanamento del debito, dell’ingresso in Europa, della guerra all’inflazione. Il protocollo di oggi è esclusivamente redistributivo, senza scambi, con l’obiettivo di salvaguardare la parte più debole del paese».

a cura di Felicia Masocco