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La straordinaria voglia di libertà

 

Questo è il testo di un dialogo fra Trentin e gli studenti del liceo classico di Roma Socrate registrato dalla Rai nel 1998.
Trentin: Mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa scelta l'ho fatta perché ho scoperto, anche quand'ero molto giovane, nella classe lavoratrice, una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un'educazione, di partecipare ad un'esperienza di studi. Trentin: Mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa scelta l'ho fatta perché ho scoperto, anche quand'ero molto giovane, nella classe lavoratrice, una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un'educazione, di partecipare ad un'esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa causa. Allora, guardiamo la scheda, forse per capire meglio cos'è.

-Si visiona la scheda:

COMMENTATORE: Noi vivremo del lavoro recita una vecchia canzone del Movimento Operaio, un inno che raccontava l'orgoglio e il senso di appartenenza a un destino comune di chi, per sopravvivere, poteva contare solo sul proprio salario. Oggi, nei paesi occidentali, le cose vanno un po' diversamente. Certo il lavoro continua ad essere la principale fonte di reddito delle persone, ma il livello complessivo della ricchezza, la sua distribuzione e la tenuta della rete di protezione delle famiglie hanno eliminato il problema della pura e semplice sopravvivenza. Se molti ancora vivono in condizioni di povertà, di fame, nei paesi industrializzati non si muore più. Ma se per mangiare non è obbligatorio avere un lavoro, allora ha ancora un senso lavorare? Per chi ha la fortuna di fare un lavoro che dà soddisfazione certamente sì, ma forse non solo per loro. Il lavoro a molti garantisce un'identità, il senso di appartenenza a una comunità, altri sul lavoro sono cresciuti, hanno imparato il valore dell'agire collettivo, di fare politica, di impegnarsi nel sindacato. Forse però vale la pena di allungare lo sguardo e di prendere un esempio opposto. Nelle periferie delle metropoli americane pochissimi hanno un lavoro stabile. La garanzia della sopravvivenza è data dai sussidi di disoccupazione e dal reddito di quei pochi che un lavoro vero ce l'hanno. Ma il degrado è spaventoso: delinquenza e droga dilagano, rispetto ad altri quartieri poveri, come quelli operai, non c'è paragone. La differenza fra queste due realtà appunto è l'assenza di lavoro come tratto unificante, portatore di una identità collettiva e strumento di emancipazione per donne e uomini. Perché il lavoro è fatica, talvolta sfruttamento, ma aiuta a sentirsi meno soli.

-Fine della scheda, inizia la discussione:

STUDENTE: Buongiorno. Alle soglie del Duemila, cambiando il rapporto uomo-lavoro, non crede che sia utopistico, se vogliamo illusorio, che il rapporto lavoratore-sindacato rimanga invariato?

Trentin: Certamente. Non può rimanere invariato, perché tende a cambiare profondamente il lavoro, occorre sempre più conoscenza per potersi esprimere attraverso un lavoro, e, occorrendo sempre più conoscenza, voglio dire, tutte le persone diventano degli individui con problemi diversi, bisogni diversi, capacità creative diverse. Il sindacato organizzava sempre grandi masse di lavoratori e cercava di cogliere, di rappresentare per tutto quello che hanno di identico. Oggi il sindacato, se vuole veramente rappresentare non delle masse, ma delle persone, ognuna con i propri bisogni, con le proprie identità, beh, deve sapere ripensare se stesso, completamente, le forme di rappresentanza, dare voce a tutte le diverse figure che stanno emergendo nella società e soprattutto fra i giovani, insomma.

STUDENTESSA: Mi scusi professore, ma, al giorno d'oggi, nel mondo della globalizzazione, dove ormai gli scioperi, le proteste, sono facilmente aggirabili dalle grandi imprese, cosa devono fare i sindacati del mondo per non perdere il loro potere contrattuale?

Ma è vero che in parte è possibile aggirare uno sciopero, quando ci sono delle grandi multinazionali, che possono spostare il lavoro da un paese all'altro. E' anche vero il contrario, nel senso che la globalizzazione ha comportato lo sviluppo nelle singole unità di produzione, di ricerca, di distribuzione, di centri autonomi di decisione. E non bisogna immaginare la globalizzazione come, così, una piovra in cui c'è la testa a New York, per esempio, e poi dopo il resto sono tutti tentacoli, non intelligenti. Nella più piccola succursale di una multinazionale c'è un centro di ricerca, c'è un laboratorio, c'è della gente, che lavora e che pensa e che diventa sempre più insostituibile, per cui lo sciopero ancora pesa, conta, incide, in questo meccanismo, che è la grande impresa moderna, che è un'impresa con tanti cervelli distribuiti in tutto il mondo. E quindi, se uno di questi cervelli va in tilt, rischia di andare in tilt insieme. Questo non vuol dire anzi che non bisogna cercare nuove forme di coordinamento fra i lavoratori e i sindacati in tutte le parti del mondo.

STUDENTE: Professore, senta, oggi si parla molto di mobilità, come se fosse la risorsa con la quale si potrà sconfiggere la disoccupazione. Ma è anche vero che, d'altra parte, la mobilità garantirà soprattutto precarietà e licenziamenti. Senta, non crede che i sindacati dovrebbero opporsi più tenacemente, di quanto non abbiano fatto fino ad ora, a questa prospettiva? E quanto meno non crede che dovrebbero combattere di più per salvaguardare i diritti acquisiti dei lavoratori più anziani, che rischiano di trovarsi, così, all'improvviso, senza la terra sotto i piedi?

Sono tante domande. C'è una mobilità che io credo discende inevitabilmente anche dalle nuove tecnologie, mobilità professionale, prima di tutto, nel senso che immaginate che un serie di tecnologie invecchiano nello spazio di sei mesi, a volte. Nel software, per esempio, abbiamo delle innovazioni quasi ogni anno. E questo vuol dire che con le tecnologie invecchiano le professioni, invecchiano le mansioni. Bisogna cambiare. Le tecnologie nuove, per loro natura, sono estremamente flessibili, adattabili. Si possono produrre piccole serie, piccolissime serie, per una certa clientela. Finito quel lavoro, si cambia e molte volte addirittura una fabbrica scompare. Quindi c'è una mobilità delle persone, che è, in qualche modo fisiologica, obbligata di fronte ai cambiamenti giganteschi.

STUDENTE: Che la mobilità sia un dato di fatto questo è appurato. Però io credo che, a un certo punto, se si vuole ricalcare un certo modello di società liberista insomma, in cui i licenziamenti diventino insomma una cosa da fare, non crede che, comunque sia, debbano essere garantiti anche i nuovi posti di lavoro? Di cosa si possono occupare le persone che vengono messe in mobilità?

Questi posti di lavoro vanno trovati in due modi: uno certamente garantendo la possibilità di uno sviluppo sempre più grande, di innovazioni sempre più frequenti e soprattutto di innovazione di prodotti. E' sempre stato così nella storia dell'umanità e non bisogna pensare, come scrivono a volte anche molti scrittori, più di fantascienza che di economia, che le nuove tecnologie distruggano il lavoro. C'è voluto, ci sono voluti cinquant'anni, dal momento in cui si sono introdotte le turbine elettriche, per dire, e usato l'elettricità nell'industria, fino al momento in cui si sono avuti gli elettrodomestici tutti i prodotti derivati, che hanno creato occupazione, eccetera. Questa è una prima occupazione. L'altra questione è legata alla conoscenza. Una persona oggi non può aspirare di essere occupata per tutta la vita in uno stesso posto di lavoro. Ma può aspirare ad avere una professionalità sicura. Il che vuol dire una professionalità che cambia continuamente, un aggiornamento continuo delle proprie conoscenze. Vuol dire che cambierà lavoro, ma non perderà in termini di capacità professionale, non perderà sul mercato del lavoro, sarà sempre impiegabile ...

STUDENTE: Sì, ho capito, ma a me sinceramente sembra che i sindacati si stiano un po' troppo adagiando in questa prospettiva, cioè non mi sembra che ci siano grandi lotte contrattuali tra imprenditori e sindacati, per difendere di più i lavoratori che rischiano di essere messi in mobilità. Cioè, cosa stanno facendo in concreto i sindacati per dare alla mobilità una direzione sicura, una direzione che favorisca i lavoratori, qual'è la strategia dei sindacati?

I sindacati hanno certamente molti limiti e molte volte arrivano in ritardo rispetto a queste trasformazioni. Questo non lo voglio assolutamente negare. Ma il problema dei sindacati non è, non può essere quello di resistere. Se questi cambiamenti sono di natura così profonda e irreversibili, però non è quello di resistere e poi perdere la partita, ecco. Il problema è quello di governare questo cambiamento nella direzione più utile per i lavoratori. Vuol dire, per esempio, contrattare il diritto alla formazione sul posto di lavoro, in modo che un lavoratore che cambia un'occupazione possa uscire dall'occupazione vecchia più ricco di conoscenze, più forte sul mercato del lavoro di quando è entrato. Questo, io credo, è la battaglia che bisogna fare.

STUDENTE: Scusi, proprio per inserirmi nel discorso, qui, del mio compagno, Le volevo chiedere: ma proprio questo qui è il giornale Liberazione di ieri, e riporta alcuni passi proprio del Suo intervento al Convegno Nazionale su Orari e condizioni di impiego. Ma Le sembra possibile che - qui c'è scritto: Per Trentin l'orario di lavoro rischia di finire sotto il controllo unilaterale della direzione aziendale. - ma è possibile che anche su un fatto, come quello delle 35 ore, il sindacato non si impegna veramente? Cioè è possibile ottenere, secondo Lei, la riduzione a 35 ore dell'orario settimanale, con una contrattazione? Non è forse più giusto cercare un po' anche il muro contro muro, cioè cercare di non fare passi troppo piccoli, ovvero cercare di imporlo per legge? Perché, a questo punto, pare che i sindacati veramente rinuncino a cercare di imporlo per legge agli imprenditori le 35 ore settimanali.

Ma mi pare che l'idea di imporre una cosa per legge, quando non si riesce a imporla con la lotta e con la contrattazione sindacale, sia una reazione di deboli, non di forti. Prima risposta. Se non riesco a conquistare, con il consenso della gente, un determinato risultato e mi rivolgo alla legge, non è un atto di forza.

STUDENTE: Ma con il consenso di chi, Lei intende? Con il consenso degli imprenditori? Penso che non l'avrà mai.

No, no. Con il consenso dei lavoratori.

STUDENTE: Ma ci sono stati diversi scioperi dei lavoratori, anche in fabbriche, che chiedevano questa riduzione a 35 ore.

Davvero? Me ne cita una e sono molto curioso di saperlo.

STUDENTE: Il 21 di marzo non ci dovrebbe essere una manifestazione nazionale?

Sì, una manifestazione nazionale, adesso vedremo come andrà. Lei parlava di scioperi di lavoratori per le 35 ore. Se me ne cita uno.

STUDENTE: Eh, intendevo queste manifestazioni, non scioperi.

Allora qui troviamo un problema, se vogliamo essere concreti. Bisogna parlare di un paese reale, vero, perché questo paese vada avanti. Questo paese reale è fatto di una molteplicità di situazioni. Io non ho detto che le imprese controllano gli orari. Ho detto che le imprese controllano il tempo, che è una cosa molto, molto più complicata. E effettivamente il grande problema, che avvertono tutti i lavoratori, delle più diverse categorie di professionalità, è quello di governare il proprio tempo. Non è con una ricetta unica che si risolve questo grande problema di libertà, non è con una ricetta unica. Perché, se lei va a dire a un lavoratore, che lavora 32, ha 30 ore - ci sono molti casi di accordi di questa natura -, per lui il problema sarà quello, non di avere garantito per legge le 30 ore, ma di fare sì che in queste 30 ore lui abbia delle possibilità di pausa, di fronte a un lavoro stressante, avere la possibilità di avere una formazione con la riduzione dell'orario.

STUDENTE: Senta scusi, ma Lei ha detto: l'imposizione per legge è dei deboli. Ci sono alcuni sindacalisti che si vantano di portare avanti la storia delle 35 ore sin dal '78, da anni e anni, però mi sembra che soltanto con l'imposizione di una forza politica si sia arrivati, si sia arrivati a parlare concretamente di 35 ore. Cioè in venti anni che cosa hanno fatto veramente i sindacati per cominciare a parlare concretamente di 35 ore? Ho capito: l'imposizione per legge sarà pure dei deboli, però a un certo punto forse è l'unico modo per imporsi agli imprenditori, che mirano esclusivamente a diminuire il costo del lavoro. E sicuramente con le 35 ore il costo del lavoro non diminuirebbe.

No, ma con le 35 ore, se lei adesso conosce un po' come è regolamentato lo straordinario in Italia, le ore straordinarie costano molto di meno dell'ora normale di lavoro, costano il 40% di meno. Contrariamente a quello che strillano gli imprenditori, io non sono convinto che sia un grande dramma per loro avere una legge che dica 35 ore per tutti, perché dopo fanno tutti gli straordinari di questo mondo, senza nessun limite, e le proposte di legge di riduzione a 35 ore lasciano assolutamente irrisolto questo problema. Io sto a dire che il sindacato in questi anni, malgrado le gran difficoltà - disoccupazione non è una cosa che aiuta le battaglie per l'orario -, ha ottenuto, in molti casi che può suscitare, non 35 ore, ma 36, 34, 32, 30. Io conosco molte aziende, nel tessile, che lavorano a 30 ore. Beh, io scopro, per esempio, che in molti casi la condizione di lavoro della gente, anche a 30 ore, è peggiorata. Nello stesso tempo a un ricercatore, che ha un progetto che deve portare a termine, lei va a dire che lui lavorerà 35 ore e basta e poi ricomincerà la settimana dopo per continuare il suo progetto e il suo esperimento, questo le spingerà a un soluzione di questo genere.

STUDENTE: Son casi limite.

Son casi limite? Siamo al 28% circa di popolazione lavoratrice che è ad alta, ad altissima professionalità. Un ragazzo - e sono un milione, un milione e mezzo di collaboratori coordinati continuativi, che sono dei lavoratori subordinati, anche se sono stati collocati in questa forma contrattuale - , questi lavorano per missione. Quindi il problema del tempo per loro è del tutto diverso da una soluzione a ghigliottina. Ecco, questo voglio dire. Sono tanti infiniti casi. Il problema è quello di ridurre l'orario effettivo, non l'orario legale, e di consentire alla gente di governare il proprio tempo.

STUDENTESSA: Il sistema di produzione fordista-taylorista è oramai caduto. Volevo chiedere, il nuovo modo di produrre sarà riorganizzato in base alle nuove esigenze di mercato oppure senza un'ulteriore formazione di schemi?

Ma guardi, intanto possiamo parlare di una crisi del modello fordista, perché appunto le nuove, le nuove tecnologie dell'informatica, in modo particolare, hanno messo in crisi le produzioni di massa, standardizzate, ripetitive. Sul taylorismo sarei più prudente, perché c'è una parte di resistenza delle direzioni di impresa, un po' in tutti i paesi, ad abbandonare un sistema gerarchico, oppressivo, di direzione del lavoro. Quindi siamo in una fase assolutamente aperta, ecco, e non c'è un nuovo modello, non c'è. Siamo di fronte a dei tentativi, in cui a volte prevalgono delle spinte veramente innovatrici, a volte addirittura dei ritorni all'indietro. Il problema del sindacato dei lavoratori è quello di muoversi in questa situazione e di avere proposte anche.

STUDENTESSA: Ma Lei pensa che, nonostante il lavoro dei sindacati, ci sarà sempre in questo modo di produrre nuovo, una specie di gerarchia, una volta eliminato...?

Ma una gerarchia minima ci sarà sempre: in un lavoro che si fa in tre o quattro persone c'è una divisione dei compiti e una divisione dei ruoli. Il problema è che questa divisione dei ruoli non sia fissa, che non ci sia sempre chi sta sotto e chi sta sopra, chi è governato e chi governa e che, soprattutto, tutti abbiano la possibilità di partecipare alla decisione. Questa è la grande scommessa, che è aperta in tutte le lotte sociali, in questi anni, in Europa, ma anche in altre parti, in altre parti del mondo. Dei primi passi si fanno. Credo che in tutte le industrie moderne il numero dei livelli gerarchici è diminuito, però sono pochi ancora i casi in cui c'è un lavoro di gruppo, in cui si consente al lavoro di esprimere tutte le sue capacità creative.

STUDENTESSA: Senta scusi, quale può essere la tutela sindacale per quei lavoratori che svolgono il lavoro in rete, dove non c'è più l'unità di spazio e di tempo, perché lavorano a distanza? Come può esistere la tutela sindacale, come si può controllare questa unità spazio-temporale che è andata un po' a gambe all'aria?

Beh, c'è il lavoro in rete, poi ci sono forme addirittura di telelavoro, che sono una cosa un po' diversa insomma. Il sindacato deve potere appunto avvicinarsi a tutte queste realtà frantumate, diciamo così, e rappresentare gli interessi della gente, certo non sugli obiettivi del passato, perché se si volesse dire 35 ore per tutti o un aumento salariale uguale per tutti, come se tutti fossero nella stessa identica condizione, come succedeva ben trent'anni fa, probabilmente falliremo. Ma dei problemi comuni ci sono: sono dei problemi di libertà, di diritti, di uguaglianza di opportunità, di governo del proprio tempo, di autonomia di decisione. E' su questi problemi che il sindacato domani potrà rappresentare la nuova classe lavoratrice. Se io dicessi oggi, come dicevo, quando dirigevo i metalmeccanici, vent'anni fa, trent'anni fa: un aumento di centomila lire uguale per tutti, credete che muoverei una foglia in questo paese?

STUDENTE: Senta, ma in questo momento, quale linea economica segue il suo sindacato?

In che senso, linea economica?

STUDENTE: Se quella del governo oppure cerca di sviare, dando, insomma dando filo ai suoi lavoratori, ai suoi dipendenti?

Ma il sindacato non può che rappresentare o cercare di rappresentare questo mondo del lavoro. Quindi non rappresenta il governo, né un'autorità, non è una propaggine del governo. La linea di politica economica che il sindacato cerca di portare avanti è quella di cui ho parlato prima: cercare di creare delle nuove occasioni di lavoro, ma che siano delle occasioni di lavoro non precarie, non dequalificate, non provvisorie, ma basate sempre sulla possibilità di far crescere le conoscenze, la professionalità. E' questo il futuro del lavoro. Il futuro del lavoro è quello di essere sempre più la merce insostituibile. Oggi la competizione su scala mondiale si svolge non più sui capitali, non più sull'invenzione, perché queste circolano con la velocità di un computer, insomma, passano attraverso Internet. L'unica cosa che rimane meno mobile, se vogliamo, relativamente meno mobile, sono le persone, e sono le persone che pensano, che possono risolvere i problemi. La competizione si svolgerà sempre più fra chi avrà un maggior numero di cervelli nei posti di lavoro e di cervelli capaci di risolvere problemi, capaci non di ripetere continuamente la stessa scocca come questa, infischiandosene dell'errore, del difetto che c'è qui, perché deve farlo entro trenta secondi questo pezzo e non può fermarsi, a controllarlo, a modificarlo, a ripararlo. No, oggi si chiede a un lavoratore giustamente di rispondere di una funzione, cioè di fare un pezzo, ma di saperlo correggere, di saperlo verificare, di vedere se funziona, se si adatta ad un altro pezzo e quant'altro. Di saper risolvere problemi. Questo era un capolavoro una volta, questo in legno, ma in realtà io ne ho visti fatti su leghe, anche molto più piccoli e molto più raffinati. Ed era il lavoro semiartigianale di un operaio di tanti, tanti anni fa. Per quarant'anni, si può dire così, nella grande industria automobilistica, questo tipo di capolavoro è scomparso. Si chiedeva alla gente di fare una sola operazione, la stessa per migliaia di volte, in condizioni magari molto disagevoli. E questa roba qui si montava, una volta, con le mani in alto per otto ore, per otto ore al giorno. E certo non ci si poteva preoccupare di sapere se aveva un difetto, come aveva, questa scocca. Tutto questo sta cambiando. Tutto questo sta cambiando e naturalmente i lavoratori, le persone in carne ed ossa, le ragazze e i ragazzi che entrano adesso in una fabbrica moderna, beh, di fronte a questi cambiamenti, chiedono due volte di più, chiedono di impadronirsi di maggiori conoscenze, chiedono di poter decidere come si fa una cosa, e non soltanto più in quanto tempo, eccetera. Questo mi pare la carta sulla quale scommettere come sindacato, ecco, per potere affermare, liberare questo grande bisogno di libertà, di fierezza di realizzazione di sé nel lavoro, della persona nel lavoro.

STUDENTESSA: Professore, Lei ha detto prima che nell'industria, sebbene ci fossero dei ritmi di lavoro incalzanti, c'era comunque la possibilità di competere, c'era la competizione tra lavoratori. Adesso con il telelavoro questa dimensione, umana e sociale, viene a mancare. Non è forse un passo indietro, quindi un diritto che il lavoratore si era conquistato, che adesso viene a mancare?

Vede io non ho detto che c'era la possibilità di competere fra lavoratori. Anzi il sindacato si è sempre battuto per impedire la competizione.

STUDENTESSA: Forse, più che competizione, era il confronto.

Sì, ma soprattutto, ho detto competizione fra le imprese oggi si realizza sempre più attraverso, attraverso il lavoro, attraverso la capacità creativa del lavoro. Giustamente. Però il lavoro è sempre stato un momento di vita in comune, di collaborazione appunto, non di competizione, fra tante persone diverse. E questo rischia di perdersi, quando ci si ritrova nella solitudine, per esempio, di un telelavoro, non c'è dubbio, anche se in questa solitudine, beh, c'è anche uno spazio di libertà, a cui io credo, un giovane che fa il telelavoro, per esempio, non rinuncerebbe facilmente, perché può decidere, ecco, può decidere di governare il suo tempo. Bisogna certamente trovare il modo che questo, che questo operatore del telelavoro, questo giovane, possa ritrovarsi con gli altri che fanno questo lavoro e vedere con gli altri quali diritti rivendicare insieme, non soltanto quale, quale retribuzione, quale possibilità anche qui di arricchire le proprie conoscenze. A questo dovrebbe servire un sindacato moderno. Cioè mettere insieme queste diverse persone, questi diversi individui. Io, come vedete, parlo sempre più di persone e poco di masse, perché la grande cosa di questo secolo, in cui voi entrate, è che la gente sempre più emerge con la sua personalità e non accetta di essere messo in una casella insieme a tanti, e vuole far sentire i suoi bisogni, le sue priorità. Questo è un diritto che va, che va difeso, eccetera, che va difeso certamente insieme, collettivamente.

STUDENTESSA: Professore, ma per quale motivo in questo periodo continua a lottarsi molto di più sulla quantità del lavoro e non sulla qualità di questo? Perché non si cerca di sistemare meglio le condizioni di questo lavoro e non soltanto le ore di lavoro?

Ma le due cose possono essere anche collegate. Perché se io riesco a lavorare di meno, parlo del lavoro effettivo, beh, riesco forse a studiare di più e ho bisogno di studiare di più, sempre più per potere lavorare meglio, per poter essere padrone del mio lavoro.

STUDENTESSA: Sì, ma per condizione intendo, ad esempio, nelle fabbriche, dove non ci stanno buone condizioni. Ad esempio ci stanno alcune fabbriche in cui la mano d'opera, a parte che è stressante, sì, per le ore di lavoro, ma anche in condizioni cattive, si può dire. Non sono buone fabbriche. Ad esempio sentiamo di molte fabbriche che stanno con mano d'opera nera, delle ragazze che avevano dei lavori al nero. Non si può migliorare questa situazione, invece che soltanto l'orario del lavoro?

Ma difatti non dico soltanto l'orario di lavoro, anche se per molte di queste ragazze, che, non so, fanno i collant nei sottosuoli, a Napoli o in Puglia, lavorare meno di dodici ore sarebbe già una cosa straordinaria, voglio dire, perché sono, oltre che mal pagate, oltre che a lavorare in modi nocivi, perché molte volte i prodotti che usano, per esempio per i collant, perché conosco questa cosa qui, sono assolutamente nocivi, si respira, si respirano degli acidi che sono, che fanno malissimo alla salute, beh, lavorare per dodici ore, come fanno in molti casi, vuol dire, vuol dire accorciarsi la vita. Allora le due cose non sono in alternativa. C'è una battaglia fondamentale per la salute, per il governo del proprio tempo, per essere pagati per quello che si fa realmente. Queste sono ragazze sottopagate, sfruttate in tutti i modi. E ritroviamo anche lì, in fondo, un problema di libertà, perché sono delle mezze schiave, che sono, in questo modo, costrette al lavoro, in molte regioni del Sud, ma anche in regioni del centro-nord, se vediamo le fabbriche clandestine di lavoratori immigrati, di lavoratori cinesi soprattutto, di alcuni lavoratori pakistani, in Emilia Romagna, nel Veneto, gente che fa un vita d'inferno, da Medioevo alla fine del XX secolo. Quindi c'è proprio un problema di liberazione del lavoro, in questo caso, anche qui prendendo di petto la questione delle persone, il loro diritto alla vita, il loro diritto a studiare, non essere costrette magari, a quindici, sedici anni ancora, a lavorare senza avere finito gli studi.

STUDENTESSA: Professore buongiorno. Allora, volendo informarci sulle rivoluzioni del lavoro, avvenute durante il corso del nostro secolo, abbiamo trovato su Internet questo sito di Riccardo Bellofiore, che, praticamente spiega un po', diciamo, le conseguenze della rivoluzione fordista e parla di lavoro vivo e di lavoro morto. Io quindi volevo chiederLe se ai giorni nostri si può parlare ancora di questa differenza fra lavoro vivo e lavoro morto e secondo quali canoni.

Ma si può parlare sempre di lavoro vivo e di lavoro morto. E' un termine marxista e, prima di Marx, anche degli economisti classici. Il lavoro vivo è il lavoro prodotto dagli uomini, il lavoro morto è il lavoro che si è incorporato nelle macchine, in quello che si è chiamato poi Il Capitale. Si può dire che ci sarà sempre un lavoro vivo e un lavoro morto. Ma mi pare che il fordismo si sia identificato molto di più con un altro concetto, quello del lavoro astratto, cioè di un lavoro che poteva essere scomposto in tante unità elementari, di un lavoro, direi, senza qualità, ecco. Si pensa al lavoratore a catena di montaggio: effettivamente fra il lavoro di uno e il lavoro di un altro, per fare quella scocca non c'era nessuna differenza. Si poteva benissimo suddividere in tante piccole operazioni questo lavoro e retribuirlo esattamente in modo uguale. Questo era il lavoro astratto, che appunto prescindeva completamente da quello che la persona conosceva, dal suo carattere, dalla sua personalità, dalle sue capacità creative, che non interessavano. Nella produzione fordista il dogma era: Non pensate, ma eseguite, perché siamo noi che pensiamo per conto vostro. Questo era il vangelo della fabbrica, della fabbrica fordista.

STUDENTE: Volevo, tornare a un tema di scottante attualità, quello delle ferrovie. Come si pone il Suo sindacato, di fronte a questa crisi che sta sconvolgendo uno degli ultimi servizi pubblici che ci sono in Italia?

Come si pone? Si pone cercando di, intanto, di liquidare una burocrazia che, per anni, ha campato su questo sistema, essendo incapace di rinnovarlo. Noi abbiamo oggi goduto delle strutture, che sono profondamente invecchiate, mentre le ferrovie hanno costato migliaia di miliardi alla collettività, evidentemente di fronte a una macchina burocratica enorme che se l'è mangiate. In secondo luogo difendendo certamente la qualità dei lavoratori, e mi permetto di dire la solidarietà fra i lavoratori. E ci sono dei gruppi corporativi, anche nelle ferrovie, che si sono, che si sono consolidati e che hanno rotto una solidarietà.

STUDENTE: Per quanto riguarda la solidarietà pare che ci sia, perché per questi cinque licenziamenti si è mobilitata quasi tutta l'azienda. E poi volevo chiedere un'altra cosa: ma pensa anche il sindacato che la soluzione possa essere nella privatizzazione?

Beh, intanto non è adesso questo il problema. La soluzione non è mai bianca o nera Importa di sapere se un'azienda è gestita, se i lavoratori hanno diritto di partecipare alle decisioni che riguardano il loro lavoro. Che l'impresa sia pubblica o privata questo è lo stesso, rimane sempre lo stesso problema. Abbiamo avuto, nell'Unione Sovietica, le imprese nazionalizzate dove c'è stata la più grande oppressione nei confronti dei singoli lavoratori. Quindi il problema non è anche qui: la soluzione mitica della proprietà. Il problema è la libertà delle persone nel lavoro. E noi difendiamo la libertà delle persone nel lavoro, anche nelle ferrovie, la possibilità che facciano il loro mestiere, lo facciano bene, lo facciano in solidarietà con altri.

STUDENTE: Sì, ma forse se la società era già privata, questi licenziamenti sarebbero passati, così, in sordina, e neanche sarebbero stati sentiti, mentre magari, essendo pubblica, questo ha fatto molto scalpore, ci sono stati scioperi...

Sì, ma il problema non è del licenziamento, mi permetti. Il problema è il licenziamento giusto. In un'industria privata, dove abbiamo conquistato lo statuto dei diritti dei lavoratori, non si può licenziare un lavoratore o una lavoratrice senza un giusto motivo, che va dimostrato anche in tribunale. Nel pubblico impiego c'è un'altra cosa: c'era il fatto che qualsiasi cosa si facesse non si era licenziati. Noi ci siamo battuti per abbattere questa situazione, per rendere tutti uguali in diritto. E c'è il diritto alla giusta causa, oggi, nel pubblico impiego. Per cui noi ci battiamo perché il lavoratori vengano giudicati, se sono responsabili. Se non lo sono responsabili, non possono essere licenziati. Ma questo è proprio un diritto che nasce dallo statuto dei lavoratori, non dal pubblico impiego.

STUDENTE: Scusi professore, in questi giorni, oltre al problema delle ferrovie, è scoppiato anche lo scandalo dei cosiddetti schiavi del nord-est, cioè persone che, provenienti da paesi stranieri, lavorano per 350 ore al mese nelle fabbriche di Porto Marghera e vengono retribuite con paghe molto basse. Ora lo scandalo più che altro è che questo è anche legalizzato, in quanto facente parte di un progetto di lavoro europeo. Non Le sembra assurdo, questo, questo fatto, non le sembra assurdo? E soprattutto come è possibile cercare di evitare che gli interessi delle multinazionali, cioè che la legalizzazione degli interessi delle multinazionali diventi una regola?

Sì, non sta scritto da nessuna parte che questo diventi una regola Se c'è il finanziamento di un progetto della comunità - io conosco il caso di Porto Marghera -, si tratta di una truffa alla comunità, prima di tutto, e di una violazione anche delle leggi più elementari che esistono in questo senso.

STUDENTE: Ecco, appunto, come è possibile che sia avvenuto e come è possibile che sia anche legalizzato?

Purtroppo avviene. No, legalizzato no, ripeto: si tratta di violazione della legge e si tratta di fare valere questa violazione attraverso la lotta. Vanno chiuse queste baracche. Bisogna avere il coraggio di grande movimento di massa per chiudere queste baracche, là dove si sfrutta la gente in questo modo. E' una battaglia, perché probabilmente ci troviamo, proprio nel nord-est, di fronte anche ad una cultura media, ad una mentalità, che magari considera assolutamente normale che si possa sfruttare, magari perché sono di un altro colore o di un altro paese, certi lavoratori. Io sono per dire: questo si scioglie con la lotta, con la lotta, con la guerra in mezzo al popolo, come si diceva una volta.

STUDENTESSA: Professore in un Suo libro Lei afferma che i sindacati dovrebbero cessare di porsi in una logica di muro contro muro con gli imprenditori, ma, diciamo, di attivarsi alla direzione delle aziende. In questo modo certe volte dovrebbero appoggiare delle situazioni poco favorevoli per i lavoratori, come può essere, in questo periodo, la mobilità. Non crede che in questo modo si appoggi troppo le aziende, gli imprenditori?

Ma io non ho mai detto così, francamente è muro contro muro. Ci son delle volte in cui il muro contro muro va fatto, perché quando sono in gioco delle questioni fondamentali, come il diritto delle persone, il caso di cui si parlava prima, c'è il muro contro muro. Lì c'è poco da fare. Non si può cedere, non si può fare compromessi di qualsiasi natura. Se lei mi cita il caso della mobilità, ci sono delle mobilità che sono inaccettabili, perché rientrano puramente e semplicemente nell'interesse dell'impresa di usare e gettare della mano d'opera a poco prezzo. Ci sono dei casi di mobilità che diventano inevitabili con i mutamenti delle tecnologie. E in questo caso io dico combattere, resistere per poi registrare il fallimento, forse il fallimento anche nella stessa adesione dei lavoratori, come nella mia esperienza è successo molte volte, mi pare un errore. E allora bisogna, innanzi tutto, avere un sindacato capace di proporre, capace di proporre delle alternative. Ci sono sempre delle alternative alle scelte dei padroni o degli imprenditori. Ecco dobbiamo imparare a dire meno no e più dei sì, ma non dei sì a quello che dice l'imprenditore, dei sì a quello che vogliono i lavoratori.

STUDENTESSA: Ma realmente che ruolo svolge il sindacato nel tutelare i diritti anche degli extra comunitari che spesso vengono in Italia, anzi continuamente vengono in Italia, a svolgere lavori umili? In che modo il sindacato difende, tutela i diritti degli extra comunitari?

Beh, intanto perché sono lavoratori come altri e vanno tutelati da tutti i punti di vista, nella misura in cui questo è facile. Purtroppo ci sono molte situazioni in cui si crea una terribile complicità tra il lavoratore, non sempre e soltanto extracomunitario, molte volte - i casi di cui si parlava prima - sono delle lavoratrici, delle ragazze italiane, che accettano di lavorare al nero, di nascondere il fatto che lavorano al nero, di rinunciare a una serie di diritti, alla sicurezza sociale, eccetera, perché il padrone dice: In questo modo ti dò un po' di più. Se non ti dò questo un po' di più, semplicemente ti licenzio. Quindi si crea una situazione di complicità purtroppo, fra il negriero - perché questo sono: dei negrieri -, e il lavoratore, soprattutto il lavoratore extracomunitario, che a volte è indebitato con le varie mafie che l'hanno, che l'hanno trasportato in Italia, è indebitato per anni, e si trova costretto a racimolare quattro soldi, per pagare, per ripagare questi debiti. Quindi anche qui c'è una situazione diversa da quella del Veneto, ma abbastanza simile, di omertà, di fronte alle violazioni del diritto del lavoro, dei contratti di lavoro, eccetera. E bisogna farle venir fuori. Abbiamo condotto delle battaglie anche importanti, in Campania, per i lavoratori stagionali. In una di queste campagne è stato ucciso, addirittura, un dirigente molto bravo, che rappresentava i lavoratori nigeriani. E' stato ammazzato, perché, perché intorno, non a caso, c'è la mafia, c'è la camorra, e ci sono queste realtà.

STUDENTESSA: Senta non c'è il rischio che la mobilità provochi una perdita di identità dell'individuo?

Assolutamente, c'è questo rischio e l'antidoto è quello che le persone riescono ad accumulare una maggiore competenza che gli consente di mantenere la propria identità anche mutando molte volte il posto di lavoro, non il tipo di lavoro, ma il posto di lavoro.

STUDENTESSA: Senta, ieri, con un altro esperto stavamo parlando del bene comune e del benessere, che può avere un popolo, dando fiducia completa allo Stato. E con questo esperto si diceva, si faceva anche l'esempio di Rousseau, che diceva della volontà comune e del benessere che questa poteva portare. Lei come pensa che potremo conciliare noi, nel 1998, queste due idee, quella che esalta l'individualità di una singola persona e questa specie di benessere comune, che dovrebbe essere creato, dando fiducia allo Stato e, diciamo, riunendo queste tante individualità per avere poi un bene comune.

Rousseau non dava fiducia allo Stato.

STUDENTESSA: No, non la dava, però diceva che, cioè, doveva esserci una volontà comune, che doveva essere data soltanto dallo Stato.

Certamente e la volontà comune si esprime su dei valori che mutano con il tempo. All'epoca di Rousseau, in parte Rousseau stesso, pensava che la volontà comune aspirasse ad un determinato grado di felicità. Ecco, io credo che oggi forse le cose cambiano, forse sbaglio, me lo direte voi, io mi batto anche per il diritto a essere infelici, ma scegliere la mia felicità o la mia infelicità.

STUDENTESSA: Ma questo è logico, perché c'è sempre il volere del singolo individuo.

E mi batto soprattutto per la mia libertà, per la possibilità di esprimermi. E qui trovo un punto enorme di solidarietà con tanti miei simili, che anche loro hanno questo problema di essere soli, di essere liberi, di essere se stessi. E questo sistema il modo di produzione, che ancora gli rimane, gli nega questo diritto, gli nega questo diritto di realizzare se stesso. E' un diritto fondamentale, è quello che fa camminare una civiltà. Io non credo che sia il ripiegamento verso l'individualismo, quello che sto dicendo. La valorizzazione delle persone, della ricchezza che hanno dentro, è una grande battaglia di libertà e di progresso.