L'ossessione dell'unità, di Iginio Ariemma e Carlo Ghezzi
Il seminario indetto a Parma il 14 febbraio 2008 era dedicato al pensiero di Trentin a proposito dei problemi dell'unità sindacale. Pubblichiamo qui il testo della relazione di Iginio Ariemma e delle conclusioni di Carlo Ghezzi.L’unità sindacale è sicuramente uno dei temi centrali della riflessione di Bruno Trentin, e della sua iniziativa e della sua azione. Se per Trentin “lavorare per la CGIL non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”, e per Bruno lo è stato di certo, “l’unità sindacale non è soltanto uno strumento, ma un valore altrettanto rilevante degli obiettivi che si vogliono perseguire”; e aggiunge e precisa :” L’unità sindacale, la democrazia sindacale, la democrazia di rappresentanza sono inseparabili e non costituiscono strumenti o obiettivi contingenti, ma dei valori e dei fini, che definiscono la CGIL come sindacato dei diritti e della solidarietà”
L’unità sindacale è sicuramente uno dei temi centrali della riflessione di Bruno Trentin, e della sua iniziativa e della sua azione. Se per Trentin “lavorare per la CGIL non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”, e per Bruno lo è stato di certo, “l’unità sindacale non è soltanto uno strumento, ma un valore altrettanto rilevante degli obiettivi che si vogliono perseguire”; e aggiunge e precisa :” L’unità sindacale, la democrazia sindacale, la democrazia di rappresentanza sono inseparabili e non costituiscono strumenti o obiettivi contingenti, ma dei valori e dei fini, che definiscono la CGIL come sindacato dei diritti e della solidarietà”
Queste frasi racchiudono tanta parte della sua leadership sindacale e politica.
Per Trentin il sindacato, e il sindacato unitario, è lo strumento principe che coniuga la libertà e il lavoro.
Quando si è laureato , nell’autunno del 1949, Bruno aveva davanti due strade: o andare all’ufficio studi della Banca Commerciale , allora presieduta dal grande Raffaele Mattioli, oppure fare il ricercatore sociale alla CGIL. Ha scelto senza esitazione questa seconda, diventando via via, alla scuola di Di Vittorio, uno dei più prestigiosi leader sindacali. Di Vittorio ha avuto una grande importanza su di lui, come ricordava sempre, perché gli ha insegnato l’abc della vita sindacale. In primo luogo l’autonomia del sindacato nei confronti del padronato, del potere politico e del partito, non soltanto in Italia, ma anche nei paesi governati dal partito comunista. Secondo, il sindacato deve essere libero, non obbligatorio né tanto meno unico. Ci deve essere piena libertà di aderire e di formare nuovi sindacati. Essenziale a questo proposito non soltanto la democrazia interna, ma anche la democrazia di rappresentanza, cioè la volontà e la capacità di rappresentare tutti lavoratori, al di là dell’iscrizione al sindacato. Terzo, il sindacato deve avere come bussola l’unità dei lavoratori e quindi l’unità sindacale. Senza questa unità l’autonomia è soltanto apparente. Quarto, il sindacato è un soggetto politico autonomo che “fuoriesce da ogni divisione di compiti tra sé e il partito”.
Gli anni cinquanta, a fianco di Di Vittorio, sono stati un periodo di grande maturazione. Egli ha partecipato direttamente alle più rilevanti iniziative della CGIL: il piano del lavoro e la nascita della Cassa per il Mezzogiorno, la discussione sulla riforma agraria e sul piano Vanoni, l’elaborazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, la ricerca, a Torino, dopo la sconfitta della FIOM del 1955, sulla condizione operaia e sulla organizzazione del lavoro alla Fiat che avrà grande importanza per la sua riflessione futura.
Prima c’era stata la guerra partigiana, compiuta sul Grappa e nella pedemontana trevigiana e poi - dopo la morte, nel marzo 1944, di suo padre Silvio, che era il leader della Resistenza veneta - a Milano, accanto a Leo Valiani, Riccardo Lombardi e Vittorio Foa, al comando della brigata G.L. “Rosselli”.
In queste settimane ho letto un diario inedito di Bruno, quando aveva non ancora diciassette anni ed era appena rientrato in Italia con suo padre. Il diario è scritto in francese che era allora la sua lingua principale, essendo nato in Francia dove il padre si era rifugiato per non obbedire alle leggi fasciste; dura circa due mesi, praticamente poco dopo l’8 settembre del 1943 fino a metà novembre, prima del suo arresto a Padova e della sua ascesa in montagna tra i partigiani, dopo la morte di suo padre. Sono più di duecento pagine scritte a mano, in cui c’è tutto: l’avanzata degli alleati, il fronte russo e quello balcanico , la resistenza e i primi partigiani, il re e il governo Badoglio, le iniziative antifasciste sue e di suo padre. Spero che venga pubblicato presto perché è una straordinaria testimonianza della formazione culturale, politica e umana di una generazione, con quella voglia di libertà e di democrazia, il senso di giustizia, quel legame con il mondo del lavoro che sono l’utopia che lo hanno accompagnato tutta la vita.
LA LIBERTA’ E IL LAVORO
L’una e l’altra esperienza, quella partigiana e quella nella CGIL, sono determinanti per mettere al centro del suo pensiero la libertà e il lavoro. Per Trentin libertà è capacità e possibilità di autorealizzazione e, poiché il lavoro è “parte inseparabile dell’identità della persona”, la libertà si realizza prima di tutto nel rapporto di lavoro. “La libertà viene prima” si intitola l’ultima sua raccolta di scritti , del novembre 2004. La libertà viene prima significa che non può essere rinviata a dopo: prima la conquista del potere, poi la libertà, e nemmeno prima l’eguaglianza e poi la libertà. Di qui la forte originalità del suo pensiero rispetto a quello tradizionale socialista, che invece mette al primo posto l’eguaglianza.
Non si può concepire – scrive Trentin – lo sviluppo storico e quello delle forze produttive come una successione di tappe obbligate ed essere schiavi di una evoluzione sociale per cui la democrazia e lo stato di diritto si affermano soltanto ad un determinato stadio di civiltà e di progresso economico. La democrazia e la libertà sono necessarie anche nei paesi meno sviluppati, in cui non è stata ancora realizzata la rivoluzione liberale. Anzi sono fattori di crescita e di sviluppo. Lo stesso concetto propugnato ora da Amartya Sen, il premio nobel angloindiano, Tanto più l’affermazione della libertà è necessaria nei paesi che si autodichiarano socialisti. Uno dei momenti più difficili, ma anche più utili per la sua formazione politica, è stato l’indimenticabile 1956, durante il quale Trentin era responsabile della cellula del Pci della CGIL e, insieme a Di Vittorio e alla segreteria, a differenza della direzione comunista, condanna l’invasione sovietica in Ungheria.
La sua riflessione su questi aspetti diviene più matura nella relazione al convegno sulle tendenze del capitalismo italiano del 1962, in cui polemizza con Giorgio Amendola, al quale lo legavano antichi rapporti di affetto, avendolo conosciuto, da ragazzo a Tolosa, in Francia, quando Amendola strinse il patto di unità d’azione antifascista con Nenni e con suo padre. La polemica concerneva l’analisi del capitalismo italiano, che non era soltanto arretrato e straccione, ma secondo Bruno, aveva anche punti alti (il neocapitalismo) che dovevano essere affrontati proprio a partire dalle condizioni di lavoro.
Sono gli anni in cui Bruno legge con grande partecipazione “La condizione operaia” di Simone Weil e resta affascinato dal suo pensiero che collega il taylorismo e il totalitarismo, l’alienazione del lavoro e nel lavoro e l’ atomismo e l’anomia nella società; e avvia lo studio sul pensiero cristiano sociale e in particolare sul personalismo di Maritain e Mounier che ispirava la parte più viva e avanzata della CISL.
Ovviamente mettere al primo posto la libertà e non l’eguaglianza non significa per Trentin disconoscere la portata della conquista dei diritti sociali e civili universali. Tali diritti sono gli spazi, le precondizioni, avrebbe detto Piero Calamandrei, in cui ognuno di noi può esercitare concretamente la propria libertà personale. A partire da chi tra noi è più debole e deve salire da una posizione svantaggiata.
Ciò che critica con molta asprezza è l’egualitarismo astratto che produce disastri. In questa denuncia è coerente tutta la vita, sia quando esprime perplessità sull’abolizione tout court del cottimo, non sull’abolizione del sistema Bedeaux, dopo la sconfitta della FIOM alla Fiat nel 1955, sia quando si batte contro gli aumenti salariali uguali per tutti nel contratto dei metalmeccanici del ’69 finendo in minoranza, sia quando, nel 1975, è contrario all’unificazione del punto di contingenza della scala mobile. Ed è contro in tutti questi casi non soltanto per ragioni di principio, ma perché nell’astrattezza dell’egualitarismo appiattente e livellatore vede il grimaldello degli aumenti salariali unilaterali e non contrattati per dividere i lavoratori.
IL SINDACATO DEI CONSIGLI E LA FLM
Trentin è stato segretario generale dei metalmeccanici dal 1962 al 1977. In questo lungo periodo, uno dei più alti della sua esperienza sindacale, sperimenta compiutamente la sua visione dell’unità sindacale. Trentin è il teorico del sindacato dei consigli. Un sindacato ben radicato nella organizzazione del lavoro, attraverso i delegati di gruppo omogeneo, di squadra e di reparto e i consigli di fabbrica. Un sindacato aperto a tutti, non soltanto agli iscritti. I delegati di fabbrica esprimono una nuova cultura della contrattazione sindacale e della tutela dei diritti dei lavoratori non più confinata nella sola rincorsa salariale, ma che si estende alle condizioni complessive e concrete di lavoro (i ritmi, i tempi, l’orario, l’ambiente e la salute ecc.) al fine di cambiare e umanizzare subito il modo di lavorare e insieme la produzione e i rapporti di produzione mettendo in discussione il monopolio della decisione imprenditoriale e manageriale. E’ una esperienza ben diversa da quella ordinovista dei consigli del 1919-20, di matrice gramsciana, ed anche di quella dei consigli di gestione del dopo Liberazione. Al centro qui c’è l’organizzazione del lavoro e inoltre i delegati e i consigli sono a tutti gli effetti strumenti e istanze del sindacato unitario e della federazione del lavoratori metalmeccanici. La FLM è stata certamente la punta più avanzata del processo di unità sindacale.
Il sindacato dei consigli, però, non ha avuto vita facile, perché ha trovato nella stessa CGIL e nelle altre organizzazioni sindacali, e specialmente nei partiti, e in particolare nel PCI, contrarietà, resistenze e atteggiamenti pilateschi. Me li ricordo bene perché allora dirigevo la federazione comunista di Torino e la FIAT è stata uno dei laboratori più vivaci e avanzati della esperienza consiliare.
Come mai è fallito il processo di unità sindacale, che prese avvio sulla spinta dell’autunno caldo? Non è durato poco, quasi tredici anni, ma non è riuscito a consolidarsi e a produrre quell’unità organica tanto desiderata. Perché? Finora non c’è una riflessione approfondita e esauriente. Ci sono spiegazioni interessanti, ma parziali, e soprattutto non è emersa finora una riflessione condivisa innanzitutto da parte delle organizzazioni sindacali e dei suoi dirigenti.
Trentin ne ha scritto molto sempre difendendo l’esperienza consiliare e della FLM. Lo ha fatto quando ha lasciato la direzione dei metalmeccanici, con il libro“Da sfruttati a produttori” (De Donato, 1977), poi l’ha ripreso con alcuni libri-intervista: “Il sindacato dei consigli”( Editori Riuniti1980), “Autunno caldo”( Editori Riuniti1990), “Il coraggio dell’utopia”.(Rizzoli1994) . I punti su cui maggiormente si sofferma sono due: la diversa concezione del sindacato presente nel gruppo dirigente delle tre organizzazioni; in particolare la differenza sulla democrazia di rappresentanza, senza la quale diviene difficile comporre unitariamente le differenze di merito nelle politiche sindacali; e, in secondo luogo, ma forse in misura maggiore, l’influenza negativa dei partiti, a partire da quelli che si ispirano alla classe operaia. Con essi la polemica di Trentin è fuori dei denti, anche se sempre molto interna e leale, come parte e parte dirigente del partito comunista a cui era iscritto.
LA CRITICA RESPINTA DI PANSINDACALISMO
Su un punto particolare non ha mai ceduto nemmeno di un millimetro: sulla critica di pansindacalismo che veniva rivolta al sindacato dei consigli e in particolare a lui stesso. Non nega che il pansindacalismo,( ma lui preferisce definirlo, “autarchia sindacale”) sia una concezione errata, in quanto viziato da elitismo, mitizzazione dell’autonomia sociale e specialmente dello sciopero generale, diffidenza e ostilità nei confronti non soltanto della politica ma di ogni intervento dello Stato (p.39 , Autunno caldo), ma, nello stesso tempo, rivendica che il sindacato è un “soggetto politico” a tutti gli effetti e considera imprescindibile “il superamento progressivo di ogni arcaica divisione delle sfere di competenza fra partiti e sindacati” nel quadro di una concezione pluralistica della politica.
Il rischio di un calpestio reciproco sullo stesso terreno, da parte del partito e del sindacato, c’è ed è evidente, ma può essere evitato secondo Bruno se il sindacato mantiene ferma la propria rappresentanza del mondo del lavoro e se non surroga la “democrazia della rappresentanza” con “la legittimazione da parte delle controparti o dello Stato”.
E , per non dare adito ad equivoci, aggiunge:” Il vuoto lasciato dai partiti nella mediazione dei conflitti della società civile attraverso un progetto riformatore, non potrà mai essere colmato dalla mediazione politica del sindacato, irrimediabilmente segnata dalla parzialità. Le capacità di mediazione del sindacato possono contribuire alla soluzione dei conflitti, possono contribuire alla loro maturazione e all’emersione delle questioni politiche che sono al centro di questi conflitti, possono farli progredire nel tempo. Ma da sole non potranno mai risolverli né portarli compiutamente ad una dimensione progettuale.
L’autarchia sindacale o la cosiddetta autonomia del sociale sono sempre state non solo delle velleità, ma la versione ammantata di radicalismo di una concezione del conflitto sociale subalterna alla ragione di Stato, in molti casi si è trattato di una delle tante versioni dell’interclassismo”: (p.119, Autunno caldo).
IL SINDACATO DEI DIRITTI E DELLA SOLIDARIETA’
Questa ultima riflessione sulla necessità da parte della sinistra di avere un adeguato progetto riformatore ci porta alla concezione del sindacato dei diritti e della solidarietà e di programma, allorquando egli, nel 1988, diventa segretario generale della CGIL. La leadership di questi anni è segnata specialmente dalle due conferenze programmatiche di Chianciano, la prima dell’aprile 1989, la seconda del giugno 1994, in cui annuncia il suo ritiro da segretario.
L’ obiettivo è molto netto: l’unità del sindacato si realizza non sulla base dell’ideologia, ma sulla base del programma e dei valori che lo sorreggono. Altrettanto netto è il punto di partenza: la sinistra e il sindacato hanno “un’analisi vecchia della situazione sociale e politica dell’Italia e dell’Europa”, dinanzi alle grandi trasformazioni del mondo e in particolare dei mercati e delle imprese. Siamo dinanzi ad “una crisi storica” di quella che gli statunitensi chiamano
“civiltà manageriale”, che ha avuto il suo perno nel sistema taylorista- fordista.
Questa crisi “è irreversibile, ancorché lunga e farraginosa , determina forti turbolenze nei rapporti di lavoro e nei rapporti sociali, ma dischiude anche nuove straordinarie opportunità all’iniziativa progettuale e ad una effettiva democrazia nei luoghi di lavoro”.
E’ necessario pertanto “ripensare” non solo la nozione di sviluppo”, ma la stessa nozione di solidarietà, individuando i nuovi vincoli della politica sindacale: innanzitutto il rapporto tra sviluppo e natura, per evitare la “distruzione dell’equilibrio ecologico del mondo, della salute e del progresso biologico di intere popolazioni”; in secondo luogo la dimensione internazionale dei problemi attuali; in terzo luogo, la emancipazione e la liberazione delle donne, che rivoluziona i precedenti rapporti e le precedenti culture; infine, quarto punto, “la necessità di salvaguardare le esigenze vitali della persona”, garantendo ad essa non soltanto la sopravvivenza , ma “il diritto a un avvenire, all’autorealizzazione di sé attraverso il lavoro, come persona inconfondibile con una massa indistinta di individui”.
“Non ci può essere – dice nella relazione di Chianciano del 1989 – separazione fra democrazia economica e umanizzazione del lavoro; come non c’è nel nostro programma una separazione tra occupazione e qualità del lavoro”
Il sindacato si deve fare carico delle compatibilità e dei problemi irrisolti quali la politica dei redditi e il debito pubblico con proposte concrete; nello stesso tempo deve affrontare i temi nuovi della democratizzazione dell’economia e delle imprese, del nuovo Welfare, ma l’asse principale è quello dei diritti universali, sulla base dei quali si sviluppa la libertà della persona. Al centro dell’azione del sindacato ci devono essere dunque i diritti, non soltanto quelli sociali, ma quelli civili, e la solidarietà. Questa è la nuova frontiera per ripensare la CGIL e. parimenti, per rilanciare la nuova unità sindacale. A tal fine va promossa “una assemblea costituente che definisca le regole di un grande sindacato unitario e pluralista”
Condivido il giudizio di Riccardo Terzi:” Trentin non ha mai tentato di imporre il decisionismo esclusivo del leader”; ma è stato “un capo che vuole decidere solo attraverso il consenso e la razionalità”. La dimostrazione l’ha data con l’accordo del 31 luglio 1992 tanto decantato dopo la sua morte come testimonianza del suo alto senso di responsabilità nei confronti dello Stato, delle istituzioni e dell’Italia. Tutto vero, ma si dimentica che Bruno ha vissuto quell’episodio come una sconfitta, sua personale, della CGIL e dell’unità sindacale. Infatti, dopo aver firmato l’accordo ha rassegnato le dimissioni in quanto la firma non corrispondeva al mandato avuto dalla CGIL e non era stato possibile consultare i lavoratori. Quindi né democrazia sindacale, né tantomeno democrazia di rappresentanza. Le sue dimissioni però sono state a fondamento della sua risalita e della rivincita, avvenute un anno dopo con il governo Ciampi e con l’accordo sulla concertazione che dura tuttora,
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LA CRISI STORICA DEL FORDISMO E IL CORAGGIO DELL’UTOPIA
Negli ultimi anni Trentin ha affrontato spesso la questione della crisi del fordismo. Bruno era convinto che ci trovassimo di fronte alla terza rivoluzione industriale, dopo quella dell’Ottocento e quella fordista; un rivoluzione che ha a base “l’informatica e le telecomunicazioni, in un contesto di globalizzazione dei mercati e dei capitali”. Non amava utilizzare termini, che considerava poco limpidi, come società terziaria, postfordismo, postindustriale. Una rivoluzione , in cui prevale l’investimento immediato, per ragioni finanziarie e speculative, rispetto a quello di lunga durata, modificando completamente le relazioni tra azionisti e management; in cui, aumenta la forbice tra la precarietà e la dequalificazione e la necessità di una formazione continua e permanente del lavoratore e di una crescita della qualità del e nel lavoro di fronte ai processi tecnologici sempre più rapidi.
C’è da parte sua una sopravvalutazione della crisi del fordismo? Non credo. C’è piuttosto la convinzione radicata che se non c’è una robusta volontà soggettiva che ridisegni l’identità culturale della sinistra sindacale e politica “impregnata della cultura fordista, sviluppista e taylorista essa sarà inevitabilmente condannata a subire una seconda rivoluzione passiva, ben più vasta e di una durata ben maggiore di quella lucidamente analizzata alla fine degli anni “20” da Antonio Gramsci.” . E dunque la crisi va affrontata di petto, con coraggio, e forse anche con una punta di utopia. Va affrontata con proposte concrete, a partire dalle grandi contraddizioni che investono il lavoro e i rapporti sociali, quali la precarietà, la flessibilità, la mobilità, la contrattazione (è finito il tempo del contratto di lavoro a tempo indeterminato), la conoscenza e il controllo sui luoghi del lavoro e così via
In occasione della laurea honoris causa, conferitagli dall’università di Venezia nel 2002, nella lectio doctoralis dice: “ I grandi cambiamenti in corso, che accompagnano l’esaurirsi della crisi fordista segneranno la fine dello stesso concetto di lavoro astratto, senza qualità – l’idea di Marx e il parametro del fordismo – per fare del lavoro concreto, del lavoro pensato e quindi della persona che lavora il punto di riferimento di una nuova divisione del lavoro e di una nuova organizzazione dell’impresa stessa”. Perciò, pur non prestando le orecchie alle sirene della ideologia della flessibilità, occorre “governare la flessibilità e la mobilità dei lavoratori, assumendole nelle loro favorevoli potenzialità positive nella direzione della ricomposizione progressiva di una professionalità complessa e di una cultura dei lavori”.
“La prospettiva che il sindacato del duemila offre alle nuove generazioni – aveva detto a Chianciano- non può essere quella di un lavoro qualunque, ma deve essere un lavoro che metta al centro l’autonomia e l’autorealizzazione della persona.
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Non c’è alcun attaccamento al passato nel suo modo di ragionare. A differenza di altri non ricorre mai alla centralità del rapporto tra capitale e lavoro. Se ben ricordo non usa mai questa espressione. Trentin sa bene che è sempre più arduo ricercare e trovare la soggettività del lavoratore odierno “ nell’epoca del capitalismo totale e personale”, come scrive da tempo Marco Revelli, un’epoca in cui “ il capitale entra nella vita del lavoratore e se la incorpora nella sua totalità” (nel lavoro nel sapere accumulato, nel consumo,come capitale circolante o finanziario o produttivo) . Ma dove cercare questa nuova soggettività e identità sociale e politica se non nella qualità del lavoro, nel rapporto tra lavoro e conoscenza?
Nel suo pensiero non c’è nostalgia delle categorie passate, ma neppure fondamentalismo di sorta. Nel lungo colloquio con Carla Ravaioli, che difende l’esigenza di porre limiti e di arrestare la crescita quantitativa (“Processo alla crescita”. Editori Riuniti, 2000) Trentin risponde con fermezza che è una battaglia sbagliata per varie ragioni: perché sarebbe una battaglia di minoranza, di mera testimonianza, “una strada senza uscita, in un mondo nel quale esistono disuguaglianze mostruose, enormi bisogni insoddisfatti “; e inoltre contiene “un rischio di autoritarismo” poiché “ nessuno può decretare al posto di altri quali sono le necessità e quali i bisogni superflui”: Perciò “contrapporre il crescere meno- dice Trentin- al crescere più è una posizione fondamentalista uguale e contraria a quella di chi vede solo nella crescita ininterrotta il progresso dell’umanità”. Occorre invece “cambiare la qualità della crescita, distinguere tra i vari tipi di crescita”. “ L’obiettivo prioritario – precisa -è la modifica della qualità dello sviluppo. E la qualità dello sviluppo si potrà acquisire soltanto attraverso la modifica della qualità del lavoro umano, riaprendo la possibilità di una nuova relazione, non dettata dalla profittabilità immediata, tra l’uomo e la natura”.
Come si vede Bruino ritorna sempre al punto di origine del suo pensiero , cioè al lavoro e più precisamente ancora alla libertà del lavoro e nel lavoro. La sua civitas, la sua polis, la sua utopia, la sua città del sole, è la città del lavoro, come si intitola il suo libro forse più maturo.
Credo che Bruno fosse pienamente consapevole che c’era un pizzico di utopia in questa concezione del lavoro e dello sviluppo. Intervistato da Bruno Ugolini, infatti, risponde con nettezza e lucidità:” Credo di essere arrivato negli ultimi anni alla convinzione che l’utopia della trasformazione della vita quotidiana debba diventare il modo di fare politica”. Non il primo o il secondo o il terzo paradiso. Non il paradiso in terra. Aveva compreso fino in fondo la lezione della storia. Ma “la trasformazione della vita quotidiana”.. E aveva compreso che l’utopia, in particolare l’utopia quotidiana, esige coraggio. Ma senza un pizzico di utopia la vita e la stessa politica non incontrano l’etica e hanno ben poco senso.
LE CONCLUSIONI DI CARLO GHEZZI
Intervento conclusivo di Carlo Ghezzi, Presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, al convegno di Parma del 14 febbraio 2008 su Bruno Trentin
Sono lieto ed onorato di poter prendere la parola a nome della Fondazione Giuseppe Di Vittorio a conclusione di questa bella celebrazione che ricorda la figura e l’opera di Bruno Trentin, una grande personalità del sindacalismo e della sinistra europea recentemente scomparsa che abbiamo voluto ricordare e alla quale la Camera del Lavoro di Parma ha deciso, con la cerimonia di oggi, di intitolare il salone delle riunioni. La Camera del Lavoro di Parma, lo ricordiamo tutti, è stata una della prime Camere del Lavoro fondate in Italia e la sua sede è intitolata a un grande sindacalista quale è stato Ferdinando Santi.
Bruno Trentin è morto il 22 agosto del 2007. Un anno prima era stato vittima di un brutto incidente mentre pedalava su una pista ciclabile disegnata tra le amate montagne dolomitiche della Val Pusteria.
Con lui è venuto a mancare un protagonista, un dirigente che ha fatto la storia del sindacato italiano e che ha saputo pesare nel dibattito interno del suo partito e di tutta la sinistra italiana. Bruno ha militato nella Cgil assumendo livelli di responsabilità crescenti alla fine del conflitto bellico, ha vissuto in prima fila, e sempre da protagonista, una buona metà della storia centenaria della confederazione.
Nato in Francia nel dicembre del 1926, dove suo padre Silvio era dovuto riparare con tutta la sua famiglia per la sua intransigente opposizione al fascismo, Bruno, giovanissimo, ha preso parte alla Resistenza combattendo nelle formazioni di Giustizia e Libertà, poi, completati gli studi nel 1949 è entrato a far parte del gruppo dirigente della Cgil operando nell’ufficio studi della confederazione diretta da Giuseppe Di Vittorio. L’incontro con il grande sindacalista di Cerignola ha segnato in modo irreversibile numerosi tratti della sua militanza sindacale e politica. La dignità del lavoro, la sua centralità in una società moderna, la ricerca spasmodica dell’unità dei lavoratori, il coraggio e la determinazione nella battaglia politica sono stati i massimi insegnamenti che Di Vittorio gli ha lasciato e che Bruno ha sempre tenuto alti nella sua lunga militanza.
Trentin è stato in tal modo vicino a Di Vittorio nel corso di molti passaggi difficili e significativi, dalla elaborazione del Piano del Lavoro alla partecipazione al contrastato congresso mondiale della Fsm che si tenne a Vienna nel 1953 poco dopo la morte di Stalin. Di Vittorio, presidente della Fsm dal 1949, in quell’importante consesso internazionale delineò nella relazione la sua originale concezione del sindacato, un’organizzazione capace di elaborare piani organici in campo economico, di progettare lo sviluppo, di stringere alleanze sociali finalizzate a realizzare politiche riformatrici. Nella visione di Di Vittorio il sindacato era anche un soggetto politico. In quell’occasione il segretario della Cgil sottolineò il valore dell’autonomia del sindacato da ogni Governo. Ribadì l’intangibilità del diritto di sciopero, l’esigenza che gli iscritti ai sindacati eleggessero ovunque democraticamente i propri dirigenti. La sua relazione entusiasmò i delegati del Terzo Mondo. All'opposto fu accolta gelidamente dai delegati francesi e dell’Est europeo. Ai loro occhi le idee di Di Vittorio appariva-no in gran parte indigeribili, inoltre sovvertivano la rigida divisione fra le funzioni del partito e quelle del sindacato attribuendo a quest’ultimo una posizione invasiva, che ribaltava la ferrea gerarchia secondo la quale al partito spettava il primato indiscusso. Il congresso si concluse con un sofferto compromesso in una combattuta commissione politica del congresso nella quale Di Vittorio si era fatto rappresentare proprio dal giovane Bruno Trentin. Il dispositivo politico finale votato dal congresso non contenne la rituale approvazione della relazione introduttiva. Concetti e interi brani della relazione non furono accolti. Per Di Vittorio fu una pubblica umiliazione.
Trentin fu accanto a Di Vittorio anche in altri passaggi difficili: dalla sconfitta che le liste della Fiom-Cgil subirono alla Fiat nel 1955 alla decisa autocritica che il segretario generale avviò, dalla coraggiosa presa di posizione che il segretario generale della Cgil assunse di fronte ai fatti d’Ungheria del 1956 al suo contrasto con il Pci circa il giudizio da esprimere sul nascente Mercato Comune Europeo che la Cgil decise di non contrastare frontalmente ma di accettare come un terreno più avanzato per costruire un’Europa dei lavoratori. Nel 1962 Trentin assunse la carica di segretario generale della Fiom succedendo a Luciano Lama, incarico che manterrà fino al 1977. Nel 1964 venne eletto deputato alla Camera sempre nelle liste del Pci.
Ha guidato la Fiom, e successivamente la Flm, insieme a Pierre Carniti e a Giorgio Benvenuto nel corso dell’autunno caldo, l’anno nel quale le lotte operaie cresciute lentamente ma costantemente nel corso degli anni sessanta sperimentando la contrattazione articolata e l’unità d’azione nella categoria dei metalmeccanici diedero un contributo straordinario ad una stagione di conquiste salariali, normative e di riduzione dell’orario di lavoro. Permisero alla società italiana un salto nella qualità della democrazia e della partecipazione, vi portarono profonde innovazioni sociali, culturali e di costume.
L’autunno caldo non nacque all’improvviso dal vuoto, fu l’esplosione di quella lunga incubazione che gli storici chiamano la riscossa operaia avviata dai rinnovi contrattuali degli elettromeccanici all’inizio del decennio. Famoso è rimasto in questo entusiasmante e difficilissimo percorso il primo comizio unitario tenuto da Carniti e da Trentin al Velodromo Vigorelli di Milano. Quella stagione, a differenza di quanto accadde nel resto d’Europa durò molto a lungo e iscrissero finalmente i temi del lavoro nella parte alta dell’agenda politica italiana.
Nel 1977 Bruno Trentin è entrato a far parte della segreteria confederale della Cgil allora diretta da Luciano Lama, ha diretto l’ufficio studi e il dipartimento del mercato del lavoro, ha seguito per brevi periodi le tematiche del pubblico impiego, ha promosso la nascita dell’Ires-Cgil. Nell’autunno del 1988, dopo il breve periodo di direzione della confederazione affidato ad Antonio Pizzinato, è divenuto il segretario generale della Cgil.
Ha attraversato gli anni difficili segnati contrassegnati dalla caduta del muro di Berlino, da tangentopoli, dalla crisi dei partiti che avevano promosso il Cnl, costruito la Repubblica e approvata la Costituzione. Ha guidato la Cgil, insieme con Cisl e Uil, nel ridefinire un nuovo assetto dei salari e della contrattazione dopo i defatiganti e lunghi anni spesi a difesa dell’istituto della scala mobile, dall’urgenza di risanate un debito pubblico italiano spinto oltre i limiti della tollerabilità da governi di pentapartito degli anni ottanta, spendaccioni e tutt’altro che riformatori. Nel 1994 ha lasciato la segreteria della Cgil e assunto la direzione dell’ufficio di programma. Da quella fase così convulsa, a differenza della grande maggioranza dei dirigenti di grandi organizzazioni politiche, economiche e sociali che vennero travolti insieme alle strutture che dirigevano, Trentin dalla sua Cgil è uscito rimpianto, stimato e apprezzato da coloro che aveva rappresentato, anche salutato con rispetto e accompagnato da sinceri rico-noscimenti al suo valore da parte di vastissimi settori della società italiana decisa-mente estranei sia al sindacato che alle forze del lavoro.
Nel 1999 è stato eletto parlamentare europeo nelle liste dei Ds e ha seguitato ad essere protagonista nella ricerca e nella elaborazione programmatica sottolineando quasi con cocciutaggine la centralità dei processi formativi e l’importanza della diffusione dei saperi nella società moderna attraversata dalle vorticose trasformazioni alle quali assistiamo, insistendo nel mettere in luce che le intelligenze che vengono sempre più richieste ai lavoratori in luogo della loro forza fisica costituiscono la vera ricchezza di un paese in un mondo globalizzato.
Con lui è scomparsa una figura significativa del movimento operaio e dello schieramento progressista italiano ed europeo, una figura complessa che ha vissuto una militanza intensa e lunga. Bruno Trentin è stato per decenni un dirigente popolare, autorevole, determinato, pervicacemente caparbio quando difendeva le sue idee e le sue proposte. E’ stato un grande e coraggioso innovatore, capace di andare controcorrente, sia quando le sue indicazioni sono state colte, sia quando sono state respinte nel corso di confronti e di discussioni non sempre facili che caratterizzano il sindacato confederale italiano e il variegato mondo del lavoro. E’ stato così quando Bruno si dimise dall’incarico di parlamentare nel 1965 per affermare quell’incompatibilità tra incarichi sindacali e incarichi istituzionali che era oggetto di aspra discussione sia nella Cgil che tra i tre sindacati dei lavoratori metalmeccanici che stavano sperimentando una avanzata stagione di unità d’azione. Trentin assunse quella decisione sia perché ne era profondamente convinto ma anche perché gli veniva costantemente ri-chiesto, soprattutto dal gruppo dirigente della Fim-Cisl, quale segno concreto della volontà di fare avanzare il processo di unità sindacale sgombrando il campo da quello che era ritenuto uno degli ostacoli principali. Ne ho già accennato ma lo riprendo ancora, fu così nell’autunno caldo quando guidò le poderose lotte dei lavoratori metalmeccanici che costruendo un significativo processo unitario, realizzarono le condizioni per la più grande stagione di conquiste salariali e normative della storia del lavoro del nostro paese. In quella fase Trentin contrastò come perniciosa, ma venne clamorosamente sconfitto, la politica degli aumenti salariali uguali per tutti, a suo giudizio foriera di eccessivi appiattimenti salariali che avrebbero distorto il giusto riconoscimento delle professionalità all’interno dei luoghi di lavoro.
In quella straordinaria vicenda politico-sindacale Trentin, pur scontando vivaci resistenze presenti nella Cgil e nel Pci, difese e sostenne l’esperienza unitaria dei consigli di fabbrica con i delegati eletti su scheda bianca, rappresentanti dei lavoratori e, al tempo stesso, strutture di base del sindacato nei luoghi di lavoro. Una esperienza che seppe rinnovare e trasformare il sindacato italiano che ebbe la lungimiranza di aprirsi al nuovo, integrando le novità espresse dai grandiosi movimenti del 1968-69 nell’organizzazione. Trentin guidò unitariamente i lavoratori metalmeccanici, sempre d’intesa con Carniti e con Benvenuto, alla storica manifestazione di Reggio Calabria nell’autunno del 1972 convocata sulla parola d’ordine di “nord e sud uniti nella lotta”. Una manifestazione che si contrapponeva alle spinte eversive dei fascisti del “boia chi molla” per Reggio capoluogo e proponeva un avanzato terreno di battaglia politica e una piattaforma rivendicativa per uno sviluppo diverso del Mezzogiorno e del paese. I reazionari ne compresero il significato profondo e sui binari dei treni che por-tavano a Reggio Calabria i lavoratori dell’Emilia Romagna furono messe addirittura delle bombe.
Tra le scelte di Trentin che rimarranno nella storia del movimento operaio italiano ed europea, vi è indubbiamente la scelta che Fiom, Fim e Uilm faranno di costruire e strutturare in modo originale la Flm, la mitica federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici, nata e cresciuta sotto la guida di Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto. Queste scelte coraggiose e lungimiranti tuttavia non permetteranno di conseguire fino in fondo l’unità organica e si infrangeranno sulle difficoltà interne ed esterne crescenti che la Flm incontrerà nel corso degli anni fino al suo dissolvimento avvenuto nel 1984 dopo la rottura sindacale di San Valentino avvenuta a seguito del taglio dei punti della scala mobile decisi dal Governo Craxi e condivisi da una parte delle organizzazioni sindacali.
Come non ricordare che quando nel 1980 un terribile terremoto colpì l’Irpinia e altre zone del Mezzogiorno Bruno intravvide con straordinaria lucidità i pericoli presenti in una ricostruzione guidata dalle clientele governative e corrosa dalla presenza capillare della criminalità organizzata e indicò invece le potenzialità presenti in un impegno collettivo nuovo, contrassegnato da un diverso manifestarsi della statualità e del suo possibile rapporto innovativo con il territorio e con la società. Le sue proposte non vennero prese in considerazione. La ricostruzione come grande occasione di rinnovamento finì invece come purtroppo tutti sappiamo.
Ancora, fu sempre Bruno Trentin che seppe chiamare nuovamente alla mobilitazione i lavoratori di tutta Italia, insieme a Sergio D’Antoni ed a Pietro Larizza in una straordinaria mobilitazione unitaria che si tenne a Palermo dove, alla fine del giugno del 1992, concluse con un suo memorabile comizio la più grande manifestazione contro la mafia organizzata nell’isola che si tenne subito dopo l’assassinio del giudice Giovanni Falcone, della sua compagna e della sua scorta.
Trentin, dapprima vox clamans in deserto, a metà degli anni ottanta propose e seppe guidare a positiva conclusione il processo di delegificazione della contrattazione del pubblico impiego e la sua definitiva privatizzazione, si impegnò per decretare l’uscita dei rappresentanti sindacali dai consigli di amministrazione di ogni tipo. Scelte sulle quali infine convinse tutti i suoi interlocutori e che rimangono un punto fermo nelle cronache sindacali di quegli anni. Poi, verso la fine di quel difficile decennio, lasciò nella storia del sindacalismo confederale italiano due segni profondi e incancellabili.
Tale fu la scelta del sindacato dei diritti, proposta nella conferenza dei delegati e dei quadri della Cgil di Cianciano nella primavera del 1989, tenutasi poco dopo la sua elezione a segretario generale, e fatta successivamente propria dal congresso della Cgil tenutosi a Rimini nel 1991. Ancora tale fu lo scioglimento della corrente comunista, deciso nell’autunno del novanta, decisione che aprì definitivamente la strada alla costruzione di un sindacato di programma, un sindacato che vede le proprie aggregazioni interne basate su diversi progetti che si confrontano e non invece sulle appartenenze partitiche.
Bruno visse un passaggio molto critico nell’estate del 1992 quando il governo, diretto da Giuliano Amato impose alle organizzazioni sindacali il superamento della scala mobile senza nel contempo costruire una nuova e adeguata struttura del salario e della contrattazione. Trentin, che visse quel passaggio come una sua sconfitta personale e politica, dopo aver non senza amarezza firmato l’accordo, cosciente di non averne avuto il mandato dagli organismi dirigenti della sua organizzazione, si dimise da segretario della Cgil. Tale atto venne ampiamente respinto dal comitato direttivo. In quei mesi Trentin fu oggetto anche di alcune dure contestazioni di piazza insieme con altri dirigenti del sindacato confederale.
Nel luglio del 1993, quasi prendendosi una metaforica e clamorosa rivincita, Trentin sottoscrisse, unitariamente con Cisl e Uil, insieme con il nuovo governo, guidato da Carlo Azeglio Ciampi, e con la Confindustria, guidata la Pier Luigi Abete, un ampio protocollo che innovava profondamente il sistema delle relazioni industriali, ridefiniva la struttura dei salari e della contrattazione unificandone le regole per tutti i settori privati e per quelli pubblici, per la grande, la media e la piccola impresa, per l’industria, per i servizi e per l’agricoltura, unico esempio concretizzatosi in tutta Europa e modello che è ancora sostanzialmente valido a tutt’oggi. Quelle regole hanno permesso al paese di produrre quello sforzo generale corale e socialmente equo che gli ha consentito di avviare il risanamento del debito pubblico e di realizzare le condizioni necessarie per entrare, tutto intero, nel gruppo di testa dei paesi che hanno dato vita all’Unione Europea con il contributo coerente, cosciente e decisivo dei lavoratori e dei pensionati. Dopo la non facile consultazione tra i lavoratori che approvò con un buon consenso quell’importante accordo Trentin maturò la decisione di ritenere conclusa la sua esperienza di direzione della Cgil.
Dotato di uno straordinario carisma, non era persona con la quale fosse facile rapportarsi. Poteva apparire prigioniero del suo carattere riservato, contrassegnato da tratti di chiusura e di ruvidezza e, al tempo stesso, di timidezza. Bruno era invece capace di esprimere rapporti gioiosi; capace di una singolare ironia era uso prodursi in numerose circostanze in battute divertenti e taglienti. E’ stato un intellettuale dotato di un forte carisma che ha saputo farsi ascoltare e apprezzare ben al di là delle sole forze del lavoro. Un uomo che ha saputo assumere sempre la piena responsabilità delle proprie proposte e delle proprie idee, con passione e con determinazione, tenendo ben sempre fermi nella sua visione della società moderna i riferimenti al lavoro e alla libertà. Ha sempre operato, come gli ha insegnato Giuseppe Di Vittorio, per costruire l’unità tra i sindacati e tra i lavoratori.
Uomo della Cgil non ha mai fatto mancare la sua voce nel dibattito politico della sinistra italiana ed europea sapendo andare spesso controcorrente, sfuggendo sempre da schemi precostituiti e da certezze dottrinarie. Non ha fatto mai mancare il suo prezioso e originale contributo nella discussione del partito del quale è stato un militante autorevole, molto noto, prestigioso e significativo.
Molti di noi hanno avuto l’onore di lavorare con lui, di apprezzarlo, di averne degli insegnamenti. Oggi siamo impegnati a studiare quanto ci ha lasciato, ad analizzarlo, a farlo conoscere e riproporlo alle attuali e alle future generazioni a parlare loro di Bruno Trentin, della sua figura umana e politica, delle sue idee forti, della sua opera. Penso sia il modo migliore per ricordarlo.