L'amarezza per l'involuzione della sinistra, Giorgio Ruffolo
Ogni grande storia ha il suo mito. Quella del sindacato si riconosce nel mito del movimento operaio. La vita di Bruno Trentin si è svolta in un tempo nel quale quel mito era ancora storia viva di un conflitto che coinvolgeva l’intera società, costituendone il tema dominante. A quel tempo e a quel mito appartiene la figura di Bruno Trentin. Ed è naturale che si pensi a lui come a un grande capo del movimento operaio.
Bruno era anzitutto una persona affascinante. Direbbe Manzoni che uno, il carisma, non se lo può dare. Lui lo aveva naturalmente. Chi ha avuto la fortuna e l’onore di conoscerlo personalmente come amico e anche di lavorare al suo fianco sia pure solo per una parte comune della nostra vita, sa che cosa vuol dire quello che definirei il pudore della ragione. Non c’era mai, nel suo discorso, una parola di troppo. Ciò induceva anche l’interlocutore a sorvegliarsi per corrispondere a quella esigenza di asciutta comunicazione. Ma c’era anche, in quel discorso, la presenza di una profonda simpatia umana. Anche l’indignazione fa parte di quella autentica simpatia. Indignazione contro la ingiustizia e la stupidità, i due grandi peccati contro l’umanità. Ed anche l’ironia, che protegge da ogni tentazione alla pomposità.
Ciò che colpiva, in Bruno Trentin, era la sua capacità di stare ben dentro all’attualità politica senza mai cadere nella tentazione delle mode, tanto meno del pettegolezzo politico, che lo annoiava profondamente. Insomma, la capacità di vivere il presente come storia.
Questo gli permetteva di cogliere, nel discorso politico, l’essenziale; di evitare come la peste il ricorso a quelle formule stereotipate che sono tanto simili ai messaggi pubblicitari.
Perché questa scrematura dell’inessenziale sia possibile è necessario immergersi nelle correnti pesanti che attraversano la nostra storia. Come la storia e il destino della sinistra. Come la grande impresa europea. Due temi cui la vita politica di Bruno Trentin è stata, specie nell’ultima parte della sua vita, inestricabilmente legata.
Era gravemente amareggiato dalla innegabile involuzione della sinistra. Rifiutava sia lo sterile conservatorismo delle Maginot ormai diroccate dalle nuove condizioni della economia e della società, sia la resa, sotto le mentite spoglie di un neoriformismo modernizzatore, al conformismo del pensiero dominante.
Non parlo poi delle manifestazioni folkloristiche pseudorivoluzionarie: come quelle, un po’ ridicole, che ci giungono da un certo snobismo transalpino. Era attento, gramscianamente, a tutto ciò che sta cambiando la scena del mondo, a cominciare dall’emergenza dei limiti ecologici e dell’assurdità della crescita esponenziale, tema che affrontò in un libro scritto con Carla Ravaioli. Si riconosceva nel tentativo di fondare un nuovo riformismo radicale, e si identificava, anche in polemica col suo partito, con quel grande personaggio misconosciuto della sinistra che risponde al nome di Riccardo Lombardi.
Inoltre, aveva identificato nell’Europa quel vasto scenario nel quale valori e traguardi propri della sinistra, irrealizzabili entro le strettoie dello Stato nazionale, avrebbero potuto dispiegarsi in una grande strategia riformista. Ricordo il vigore con il quale, nel Parlamento Europeo, in piena consonanza con Giorgio Napolitano, denunciò la grande occasione perduta di un rilancio politico del riformismo europeo, quando dodici paesi su quindici erano governati da partiti di sinistra e di centrosinistra.
Bruno Trentin sollevò anche la “questione morale”. Non certo, come altri, come espediente tattico. Ma come ritorno della politica alla coerenza con i suoi principi e con la sua missione. Egli certo non aveva bisogno di “pezze d’appoggio”. Tutta la sua vita era una testimonianza. La vita di un grande capo del movimento operaio.
Le bandiere di quel grande movimento storico gli si inchinano idealmente nell’estremo saluto.
Giorgio Ruffolo