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Il contributo degli immigrati in Italia: demografia, occupazione e welfare

Quando si fa leva sulle paure per avere consenso politico è difficile far prevalere il merito. Ma la realtà dei fatti è sempre più forte e quindi, con questa ricerca, vogliamo proporre alcuni dati sul tema dell’immigrazione (nostre elaborazioni, elaborazioni statistiche ufficiali ed elaborazioni di alcuni dei più accreditati istituti di ricerca sul tema dell’immigrazione) che spesso si tende ad occultare.

Il confronto con la realtà porta inevitabilmente a un risultato: una rigorosa politica dell’accoglienza è più utile e produttiva, non solo per le persone ma per il nostro Paese.

Anticipiamo una sintesi del rapporto (presentazione a gennaio 2020) che vuole illustrare i principali effetti demografici, economici, fiscali ed occupazionali del fenomeno migratorio in Italia e confutare alcuni luoghi comuni.

Anzitutto la crisi demografica italiana si accentua. Non si tratta solo del saldo naturale dei cittadini italiani, con il prevalere delle morti sulle nascite (374 mila nati contro 625 mila decessi nel 2018) ma anche dell’emigrazione di cittadini italiani verso l’estero (117 mila cittadini italiani che nel 2018 hanno cancellato la propria residenza anagrafica in Italia).

Il primo dato significativo: dal 2015 al 2018 i residenti stranieri sono aumentati complessivamente di 240 mila persone, mentre 446 mila italiani hanno trasferito la propria residenza all’estero (a fronte di 156 mila rimpatri nello stesso periodo).

Un sorpasso che è legato a molti fattori, tra i quali l’acquisizione della cittadinanza da parte di stranieri già residenti, ma va considerato anche che l’emigrazione italiana è sottostimata, come dimostrano le differenze considerevoli tra i nostri dati ufficiali e quelli registrati nei diversi paesi di migrazione dai relativi uffici immigrazione, in particolare nell’area dello spazio UE di libera circolazione.

I numeri dimostrano che nessuna invasione dunque è in atto. E’ necessario invece contrastare una pericolosa e negativa crisi demografica con interventi a sostegno della natalità e a favore di lavoratori e famiglie, ma anche attraverso una equilibrata politica di governo (e non di aprioristico contrasto) dei flussi migratori in entrata legati al lavoro oltre che alla protezione internazionale e ricongiungimento familiare.

Il secondo luogo comune che si usa ai fini del consenso è: “Gli immigrati ci rubano il lavoro e/o i nostri soldi”. Anche in questo caso è bene fare riferimento alle cifre ufficiali.

Il contributo alla crescita economica (PIL) dell’immigrazione è importante: nel 2018 la ricchezza generata dai lavoratori immigrati regolarmente presenti è stimata in 139 miliardi di euro, pari al 9% del PIL totale.

Ma, ancora più significativa per confutare lo slogan precedente, è la partecipazione degli stranieri all’incremento del PIL: nel periodo 2001-2011 la crescita cumulata senza il contributo dell’immigrazione sarebbe stata negativa (-4,4%) mentre, grazie alla spinta imputabile alla forza lavoro straniera (stimata pari a +6,6% nello stesso periodo), è risultata positiva (+2,3%).

Anche nel periodo 2011-2016 il contributo dell’immigrazione alla variazione del Pil è stato rilevante (+3,3%) e ha contenuto la flessione effettiva (-2,8%) che altrimenti, in assenza degli stranieri, sarebbe stata ben più accentuata (-6,1%).

Anche a livello fiscale i conti sono in regola. Esistono diversi metodi di stima che conducono tutti ad un saldo positivo tra entrate e uscite ascrivibili all’immigrazione, da + 200 milioni (stima prudenziale basata sui costi medi per settore) fino a +3,2 miliardi (stima basata sul costo marginale).

Insieme ai temi dell’accoglienza, della solidarietà, della tutela dei diritti fondamentali delle persone, i risultati della ricerca dimostrano dunque che per l’Italia l’immigrazione ha rappresentato e rappresenta una preziosa risorsa per lo sviluppo economico e sociale del paese.

Infine il lavoro. Gli occupati stranieri sono 2 milioni 455 mila e rappresentano il 10% del totale dell’occupazione, percentuale stabile dal 2015.

Il tasso di occupazione è diminuito nel corso della crisi recente in misura molto più marcata tra gli stranieri che tra gli italiani (tra il 2007 e il 2013 la differenza tra il tasso dei primi e il tasso dei secondi è passata da +9 a +3 punti percentuali) mentre dal 2014 al 2018 i tassi di occupazione degli uni e degli altri hanno seguìto lo stesso andamento crescente.

Anche per il lavoro, dunque, come per le risorse, i luoghi comuni vengono smentiti dai dati. Una differenza sostanziale invece esiste e riguarda le professioni, con la prevalenza tra gli immigrati delle qualifiche più basse (uno straniero su tre svolge professioni non qualificate, quattro volte il rapporto registrato tra gli occupati italiani) e per la percentuale molto alta di occupati sovra-qualificati. Anche il disagio nell’occupazione (lavoro temporaneo e/o part time involontario), è molto più diffuso tra i lavoratori stranieri che tra quelli italiani.

La clandestinità. Dopo le sanatorie, ultima nel 2011, il bacino dei clandestini è andato via via aumentando. Le stime di diversi istituti convergono su una cifra attualmente attorno alle 500 mila unità, persone costrette ad una vita durissima, che spesso lavorano in nero, sfruttate da “schiavisti” che lucrano sulla loro attività, senza alcun beneficio per lo Stato ed ampliando invece quell’area a rischio di illegalità che la condizione di clandestino provoca.

Sotto inquadramento, sovra qualificazione, alta precarietà e lavoro nero sono tutti fenomeni che incidono sul parametro che più di altri influisce sul contributo fiscale netto: l’occupazione.

Perché dunque, se questi sono i dati reali, una campagna anti immigrazione fa così presa? Al netto delle strumentalità, delle paure e di allarmanti fenomeni di carattere razzista, una delle possibili risposte può essere legata al crescente fenomeno della povertà.

La povertà, nel corso degli anni della crisi, si è ampliata per tutti, anche se ovviamente è percentualmente più alta fra i migranti regolari che fra gli italiani. La popolazione immigrata è presente in modo disomogeneo sul territorio nazionale e tende a concentrarsi nelle aree urbane e metropolitane a più forte densità. Spesso nelle zone più svantaggiate di queste aree, le stesse che registrano maggiori tassi di disoccupazione e di disagio sociale.

I migranti rappresentano una percentuale significativa della popolazione meno abbiente (ne sono prova i dati sulla povertà assoluta diffusi da Istat) e per questo una parte della spesa assistenziale va, come è giusto, a loro beneficio come a tutti i cittadini italiani che si trovano nella medesima condizione. Ma una parte di italiani che si sono impoveriti si sente sorpassata, messa da parte, non ha risposte ed è più vulnerabile che in passato; di conseguenza è più sensibile alla retorica del “gli immigrati si appropriano del nostro welfare”; in realtà però è il peggioramento della condizione degli italiani che provoca questi elementi di conflittualità, peraltro in un contesto di dequalificazione dei servizi di welfare e di risorse scarse e poco efficaci per tutti.

Come evidenziato in altre ricerche della nostra Fondazione, nella gerarchia sociale si sta introducendo un nuovo tipo di classe, i cosiddetti “penultimi”, una fetta di popolazione vulnerabile che ha perso molte delle speranze nel futuro ed è quindi particolarmente conflittuale con chi, versando in condizioni anche peggiori, compete nella distribuzione di risorse limitate.

È naturalmente più semplice addossare la responsabilità di questi problemi ai fenomeni migratori che non adottare politiche per risolverli.

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