La bici nella Resistenza, di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci
Ibio Paolucci un'intervista a Bruno Trentin. Notizie sul volume (edizioni arterigere - collana la memoria) sono reperibili all'indirizzo:
Bruno Trentin, già segretario generale della Cgil, gappista di “Giustizia e Libertà” a Milano sotto la direzione di Leo Valiani, ricorda un episodio di quel periodo drammatico come fosse il frammento di un film di Charlie Chaplin. Proprio così lo definisce ed ecco di che cosa si tratta. La giornata in questione è quella del 25 aprile del ’45 e lui ne è il protagonista, in una Milano deserta, mentre si trova, alle prime luci dell’alba, nelle strade del centro.
Bruno Trentin, già segretario generale della Cgil, gappista di “Giustizia e Libertà” a Milano sotto la direzione di Leo Valiani, ricorda un episodio di quel periodo drammatico come fosse il frammento di un film di Charlie Chaplin. Proprio così lo definisce ed ecco di che cosa si tratta. La giornata in questione è quella del 25 aprile del ’45 e lui ne è il protagonista, in una Milano deserta, mentre si trova, alle prime luci dell’alba, nelle strade del centro.
«Ricordo – racconta – una scena appunto di sapore charlottiano. Io stavo andando in bicicletta verso la sede della brigata Rosselli, in via Moscova, quando venni raggiunto e seguito da un camion tedesco. Io pedalavo con più vigore ma è un po’ difficile che una bicicletta la vinca con un camion. E però l’inseguimento andò avanti per un bel pezzo di strada. Ma poi, per colmo di scalogna, mi cadde il mitra. E ora che faccio?, mi chiesi. Mi fermo per riprenderlo o continuo a correre? Decisi di raccogliere il mitra e tutto finì nel migliore dei modi, nel senso che terminò anche l’inseguimento».
Ma altro che Charlot, Trentin avrebbe potuto lasciarci la pelle. Del resto la vita l’aveva rischiata parecchie volte in quelle giornate turbinose. Leo Valiani, ricordando le vicende dell’aprile del ’45 e alcuni importanti successi ottenuti dalle formazioni partigiane, scrive che però tutto questo “non toglieva di mezzo il fatto che il nemico era ancora pericoloso, che ci stringeva alla gola. Dovevamo cambiare d’ufficio quasi quotidianamente. La ‘Muti’ diede l’ordine di non procedere più ad arresti, di spararci dove ci trovavano. Due volte spararono su Bruno Trentin, in pieno centro, e solo il caso lo salvò”. Arrivato a Milano, ragazzo di diciotto anni, sempre Leo Valiani, membro del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e del Comitato insurrezionale, così lo rammenta nel suo bel libro di memorie Tutte le strade conducono a Roma: “Bruno Trentin o ‘Leone’, come lo chiamavamo, il figlio di Silvio Trentin, un ragazzone massiccio che era stato commissario della ‘Italia libera’ del Grappa, venne da me, silenziosamente, perché facessi di lui, dopo la sconfitta, e come aveva promesso al padre, qualche cosa. Il suo posto, ovviamente, era nelle più ardite squadre di Milano”. La sconfitta era stata davvero dura, seminata di sangue partigiano.
«Come ispettore del Cln regionale veneto – ricorda Bruno Trentin – ero stato mandato sul Grappa, dove c’erano varie formazioni, in rapporti difficili fra di loro, cosa che contribuì, in una certa misura, al successo dell’offensiva nemica. I tedeschi difatti sfondarono, prendendo alle spalle i partigiani e fu un massacro. I fascisti poi fecero il resto, impiccando molti dei partigiani scampati in una strada alberata di Bassano. Io allora me ne andai a lavorare in una formazione di pianura, attorno a Treviso. Lì la nostra azione consisteva, principalmente, nel sabotaggio ai treni e all’assalto di alcuni presidi. Vita durissima in pianura. Si dormiva di giorno, nascondendoci nei campi di grano o nei fienili e di notte si operava. In ottobre, siccome in quella zona mi ero un po’ “bruciato”, il Cln mi spedì a Milano».
La Milano che trovò nell’autunno del ’44 era una città semidistrutta dalle incursioni aeree e dai bombardamenti a tappeto. Macerie ovunque, la Scala e la Galleria e Sant’Ambrogio erano un mucchio di macerie. Ma Milano era anche la città delle grandi fabbriche e degli storici scioperi del marzo del ’44, che dettero la poderosa spallata al fascismo.
«A Milano – prosegue nel suo ricordo Trentin – venni inserito in una formazione Gap, che agiva in zone attorno a corso Magenta e corso Washington. A me, però, come “giellista”, venne anche dato l’incarico di costituire un’organizzazione militare, che, una volta formata, si chiamò “brigata Rosselli”. Inoltre facevo anche opera di propaganda, servendomi della bicicletta per portare in varie zone la stampa clandestina, e svolsi pure alcune missioni in Valtellina, su mandato del Clnai».
Leo Valiani non faceva mancare il lavoro al “ragazzone”, tanto da incaricarlo di compiere imprese praticamente impossibili, quali, ad esempio, il salvataggio di Ferruccio Parri, arrestato e tradotto all’Hotel Regina di Milano e successivamente a Verona. Per Parri, a Milano, dunque, erano venuti meno tutti i piani preparati per la sua liberazione. Per tirarlo fuori dalla prigione nazista di Verona, si sarebbe visto. A Milano, comunque, riuscirono a liberare due segretari del Clnai sequestrati dai fascisti nella loro abitazione.
«Quei due – dice Trentin – erano al corrente di tutto e un loro eventuale cedimento avrebbe procurato danni serissimi. Da evitare ad ogni costo. I fascisti li tenevano in quella casa come uno specchietto per le allodole. Era un vecchio trucco, una trappola per attirare altri compagni inconsapevoli, che, purtroppo, spesso funzionava. Informati della cattura e del sequestro, ci presentammo in quell’abitazione vestiti da SS italiane e riuscimmo, cogliendo di sorpresa i fascisti, a liberare i nostri due compagni».
Fu un bel colpo. Ma restava la faccenda di Parri e della sua liberazione con Valiani che tornò a chiedere a Trentin di andare a Verona a tentare l’impresa.
«Io – ricorda Trentin – a Verona ci andai, ma mi resi subito conto che non ci sarebbe stato nulla da fare. Sarebbe stato come suicidarsi. Parri, i nazisti lo avevano messo nel bunker del Palazzo delle Assicurazioni. Impossibile aprirsi un varco. Comunque, assieme ad altri compagni, qualcosa avremmo tentato. Non era uso, allora, rifiutarsi. Per fortuna all’ultimo momento venni avvisato di tornare indietro. Era successo, come del resto è noto, che Parri era stato scambiato con un generale tedesco. Quello scambio salvò la vita a Parri, ma la salvò anche a noi».
Bruno Trentin, come si sa, era arrivato in Italia dalla Francia, dove aveva vissuto col padre Silvio, dirigente di primo piano di “Giustizia e Libertà”, per molti anni, tanto da sentirsi più francese che italiano. A Tolosa aveva anche organizzato un gruppo clandestino, che aveva messo a segno una serie di attentati. Il padre, a sua volta, aveva fondato un movimento liberale e federale. Quando cadde Mussolini, il padre, che aveva allora 55 anni, propose al figlio di unire le forze e di tornare in Italia. Al giovane Bruno quella prospettiva non piaceva più di tanto legato com’era al Paese adottivo, ma accettò, pensando che quella italiana sarebbe stata una parentesi.
«Facemmo molti tentativi per entrare in Italia, che andarono tutti a vuoto. Finalmente, quattro giorni prima dell’8 settembre ’43, entrammo da Ventimiglia e cominciammo da subito il nostro cammino nella Resistenza».
Torniamo a parlare con Trentin di Milano, alla vigilia del 25 aprile. Lui ed altri compagni erano stati incaricati di mettere a punto una rete radiofonica, che avrebbe dovuto funzionare, per l’appunto il giorno precedente dell’insurrezione, per dare il via all’azione e per diramare altri comunicati e anche, forse, la cronaca delle diverse fasi della lotta.
«Ma quella rete che aveva assorbito molto del mio tempo non servì perché le cose precipitarono. Il 24 aprile ci furono i primi scontri. In quella giornata furono bloccati anche molti tram. Nella notte fra il 24 e il 25 aprile fu deciso tutto. Io ebbi allora l’incarico di occupare il Palazzo dei giornali di piazza Cavour, dove il giorno della liberazione vennero stampati vari quotidiani, fra cui “Italia libera”, lo storico organo del Partito d’Azione. Il mio compito era quello di garantire la sicurezza del posto. Poi fummo chiamati a proteggere anche la sede del Comune, dove ci furono scontri durissimi con i fascisti della “X Mas”, con morti e feriti».
Un altro ricordo di Trentin riguarda l’occupazione dell’Arena, «che noi prendemmo d’assalto, ignorando che i tedeschi ne avevano fatto un deposito di esplosivi. Lo scoprimmo dopo e tirammo un bel sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di uno scoppio che avrebbe provocato una carneficina».
Trentin torna con la memoria anche al suo primo incontro a Milano con Vittorio Foa proveniente dal Comando regionale piemontese:
«Scrivemmo assieme l’appello all’insurrezione per “Italia libera”. Era la prima volta che si trattava di scrivere in libertà sul futuro e ci sembrava quasi di sognare. La prima frase sulla quale fummo d’accordo fu “la bandiera rossa su Berlino”. Ora non so che effetto possa fare, ma allora bisogna averli vissuti quei momenti per capire che cosa rappresentava quel simbolo sulla capitale del Terzo Reich hitleriano, che aveva insanguinato l’Europa e che ora finalmente cadeva sconfitto».