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Il pericolo del trasformismo

L’orientamento assunto dalla maggioranza dei DS di indire una vasta consultazione fra i militanti del partito sulla scelta di promuovere una lista unitaria per le elezioni europee fra le forze dell’Ulivo che si dichiarassero disponibili e l’affacciarsi della prospettiva di un nuovo soggetto politico di tipo federativo coglie a mio parere una forte domanda di unità che proviene dalle più diverse espressioni  di un centro-sinistra in formazione, nei partiti e nei movimenti. Ma sarebbe un grosso errore la sottovalutazione del fatto che questa domanda di unità è al tempo stesso una domanda di proposte sui grandi problemi di questo inizio di secolo in Italia, in Europa e nel mondo; e una domanda di coerenza.



 

Proprio la scelta della lista unitaria chiama in campo il ruolo di un progetto di società, prima ancora di un programma di governo come ragione d’essere, etica e politica di un nuovo soggetto riformatore e come ragione “dello stare insieme”.


Ma qui si apre il vaso di Pandora: fioriscono le proposte o le “aperture” le più diverse e le più contraddittorie. Tutti parlano ad ogni ciclo della vita politica della necessaria definizione di un grande progetto o addirittura di una “identità di valori”, magari dimenticando o rimuovendo come un impaccio scelte, orientamenti, dibattiti ancora freschi di stampa. E questo perché vivono ogni progetto, e la necessità di scegliere fra opzioni ineluttabilmente alternative, come una prigione che potrebbe imbrigliare, quando si tratta di assumere delle decisioni impegnative,  la possibilità di muoversi in sintonia con le opportunità più contingenti, o con le mode più recenti.


E’ stata questa, fino ad ora, la storia del “Manifesto per l’Italia”, assunto come base di discussione alla Convenzione Programmatica di Milano e rimasto, malgrado gli sforzi di Piero Fassino, come un patrimonio per pochi iniziati.


Tant'è che, poche settimane dopo Milano, sono riapparse cocciutamente nell'ambito della sinistra le stesse opzioni che erano state contestate dal Manifesto per l'Italia: come la riduzione indiscriminata della pressione fiscale per permettere in stile reaganiano ai cittadini meno poveri di accedere ai servizi privatizzati della sicurezza sociale; l'accelerazione della scomparsa delle pensioni di anzianità senza sostituirle con un regime più equo, che prenda in conto i periodi di disoccupazione e garantisca delle pensioni pubbliche superiori al 48% dell'ultimo salario, oggi previsto dalla legge Dini ( e solo per chi avrà lavorato senza discontinuità e pagando sempre i contributi per tutta la sua vita); o l'ulteriore rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio nei confronti del Parlamento.


Ma perché si diffonde in questo modo, nel senso comune, l’immagine di un progetto come l’accessorio momentaneo e giustificante, di una candidatura al governo del paese? Sfuggendo al vincolo di sperimentare, in ogni caso, quel progetto con un processo democratico e ripiegando, invece, su una recita a soggetto, senza vincoli e senza chiari punti di riferimento? Neanche nei confronti di un mondo del lavoro che era stato la ragione d’essere di ogni forza di sinistra e che non si era dissolto come cenere al vento con la crisi definitiva del comunismo?


Probabilmente perché un’iniziativa di massa, un dibattito nel paese sulle grandi riforme che si impongono nella società contemporanea, sui loro costi e sui loro vantaggi, sul loro rigore, la loro coerenza e la loro trasparenza, vengono vissute da una parte consistente della cosiddetta “classe politica” come una camicia di forza imposta ad un “grande disegno” che si identifica esclusivamente con il primato dei partiti e con l’arte della governabilità (e non tanto con i suoi obiettivi, che possono divenire i più mutevoli, cammin facendo).


A pochi mesi dalla Convenzione programmatica di Milano, promossa dal Segretario dei DS molti esponenti politici reagiscono, non all’idea di un nuovo progetto da formulare (questa viene invece sempre invocata). Ma, nel momento in cui qualsiasi progetto, prende forma (sono ormai quattro, fino ad ora, se non sbaglio, i tentativi di formulare dei documenti progettuali da parte del PDS e dei DS) nei confronti dei possibili obiettivi vincolanti enunciati nel progetto. Con il fastidio di chi non vuole farsi imprigionare preventivamente in un patto trasparente con gli elettori. E di chi intende “l’autonomia del politico” come l’attributo di una classe dirigente che decide pragmaticamente in ragione dell’aria che tira e delle mode dominanti in frazioni della società civile. Salvo poi ripiegare sulla formulazione di “ricette” improvvisate e molte volte divergenti fra loro, in risposta alle singole iniziative politiche imbastite del centro-destra, come nel caso della riforma delle pensioni.


Non so come definire questo continuo impaccio alla possibilità di “volare alto” che pesa sulla strategia della sinistra riformatrice in Italia e, nelle sue più diverse articolazioni, se non con le catene che derivano dalle sue eredità trasformistiche. E, per gli ex comunisti, da un passato che non andava certo cancellato o rimosso con la caduta del muro di Berlino ma che andava rivisitato criticamente e laicamente superato, senza residui, nelle sue parti sempre più intrise di autoritarismo e di vocazione all’egemonia, almeno prima di dedicarsi subito e ripetutamente al solo cambio di nome.


Se il trasformismo politico, in Italia, ha certamente fra le sue radici, la difficoltà, emersa sin dall’Unità, di assicurare il governo e la coesione di un paese frantumato in tante frazioni tra il politico e il clientelare, non va sottovalutato il fatto che si è venuta formando, in quel contesto, una cultura del trasformismo che identificava la politica con l’arte dell’adeguamento alle circostanze e con l’imperativo della governabilità delle evoluzione dei costumi e della società; in presa diretta con la modernizzazione senza aggettivi di un paese “in ritardo” rispetto al resto dell’Europa. Una cultura, ai suoi inizi, intrisa di positivismo, che assumeva le capacità di adattamento mimetico della politica ai cambiamenti e alla opportunità, non solo come una necessità ma come un valore; un indice appunto della sua modernità. Una cultura che diventerà con la grande esperienza della Democrazia Cristiana, l’arte del governo intorno ad un centro capace di equilibrare e in qualche misura di assorbire, mediando, le spinte anche contraddittorie provenienti dai diversi settori della politica e della stessa società civile.


Dobbiamo però interrogarci sulle matrici di una simile cultura nella storia più recente della sinistra italiana, sul suo prevalere rispetto ad una riflessione più rigorosa sulla complessità delle trasformazioni sociali e al mantenimento di un referente sociale privilegiato nel mondo del lavoro subordinato. Forse una pista può essere fornita dalle ricadute della crisi del leninismo sul tessuto culturale delle varie articolazioni della sinistra.


Il leninismo è stata la capacità di esprimere una forte autonomia della “tattica” nei confronti di una grande strategia della trasformazione rivoluzionaria, anche perché si fondava su situazioni e soggetti dati per conosciuti e poco modificabili (la classe operaia, le grandi concentrazioni di ricchezza, il ruolo centrale dello Stato) e privilegiava, per una lunga fase di transizione, l’avvicinamento (con obbiettivi a questo finalizzati), dei partiti della sinistra alle soglie del potere centrale; dal quale si sarebbero potuto poi accelerare, “dall’alto”, tutte le fasi della trasformazione. Per dirla in termini caricaturali la rivendicazione della terra ai contadini e la parola d’ordine ”tutti i poteri ai soviet” erano perfettamente compatibili con un loro successivo trasformarsi nel regime dei Kolkoz e dei Sovkoz o nella dittatura del partito unico. E questo perché ogni momento della tattica trovava la sua ragion d’essere nell’essere una tappa di avvicinamento al momento della grande trasformazione, dell’irreversibile trasformazione della società.


Ma cosa succede quando lo sbocco rivoluzionario e l'irreversibile trasformazione della società non sono più degli obbiettivi strategici?


Abbiamo metabolizzato sino in fondo la crisi del leninismo e dei suoi epigoni italiani, come l’autonomia del politico, il decisionismo schmittiano, la diversità organica del partito d’avanguardia (anche nei confronti della rude classe pagana soltanto capace di chiedere e mai di proporre), la fatale subalternità corporativa delle lotte sindacali e l’impossibilità che il sindacato si esprima anche come soggetto politico?


Le tortuose vicende culturali delle varie componenti della sinistra italiana in questi ultimi quindici anni inducono a molti dubbi. I frenetici cambi di nomi, le diatribe per decidere se i DS, oltre a non essere più un partito del lavoro, debbono definirsi come un partito democratico, o come partito socialista o come un partito riformista, testimoniano delle oscillazioni dei suoi gruppi dirigenti come della crisi di identità che permane in molti fra i suoi militanti.


Infatti, non sarà mai il cambio di nome o di una etichetta a sostituire la necessità di formulare obiettivi credibili – le riforme - e di costruire alleanze che siano coerenti con il conseguimento di quegli obiettivi, assumendo l’esperienza del governare come il segno di un consenso democratico alla loro realizzazione.


Con questa grande differenza rispetto al passato dei partiti leninisti (altro discorso andrebbe fatto a proposito della crisi del riformismo socialista in Europa negli anni del secondo dopoguerra). Con la scomparsa della prospettiva più o meno lontana della “grande trasformazione irreversibile” non ci sono più riforme funzionali a quel cambiamento, attraverso l’avvicinamento al potere, ma riforme che la crisi e le trasformazioni di una fase di  transizione delle società contemporanee impongono di realizzare, non come tappe intermedie, ma “qui e ora”; e che debbono essere percepite nella loro radicalità, proprio in ragione della possibilità di intravedere da subito tutte le loro implicazioni, anche lontane, sulla vita quotidiana dei cittadini.


Una valutazione questa che si è compiuta molto raramente, per esempio, a proposito delle politiche di formazione che erano al primo posto nel programma di Prodi e delle varie versioni di una riforma pensionistica. Una valutazione la cui assenza in termini di mobilitazione di massa, di lotta contro le resistenze corporative, si è fatta sentire quando sono state tentate importanti e condivisibili riforme dall’alto, durante i primi governi di centro sinistra: come la riforma dell’ordinamento scolastico e della formazione permanente o come riforma della sanità e la riforma dell’assistenza. E vi è poco da sorprendersi del fatto che queste riforme non siano state vissute come cosa loro da milioni di cittadini quando, a differenza, della contestata e costosa, ma fondamentale, scelta di entrare a fare parte dei paesi dell’Euro, esse non sono apparse e non sono state vissute come grandi priorità perseguite solidalmente dai governi del centro sinistra e sono state, invece, penalizzate, nella loro possibilità di essere largamente sperimentate, dal dirottamento delle risorse pubbliche in altre direzioni, magari attraverso una riduzione poco selettiva della pressione fiscale.


Questi sono quindi i guasti provocati della sopravvivenza di un leninismo senza la rivoluzione, di una tattica orfana della rivoluzione e perciò separata da una strategia della trasformazione possibile che si concili con l’interesse generale, e con l’evoluzione di questo interesse generale.


La cultura trasformistica che circola anche tra le varie componenti della sinistra e che si arrovella sulle formule, alla ricerca di un “apriti Sesamo” che schiuda loro la strada dell’accesso nel club delle classi dirigenti viene così distratta da una riflessione laica sulle autentiche trasformazioni della società e sul loro essere sempre aperte ad esiti diversi (quando entra in campo la politica dei progetti e non quella delle formule), per subire l’influenza delle mode culturali delle classi dominanti senza riflettere criticamente sui loro agganci effettivi con le realtà della società civile. Così sono entrate a far parte delle innovazioni riformiste della sinistra, di volta in volta, la riduzione dei salari per i nuovi assunti, la flessibilità del lavoro senza la sicurezza di una impiegabilità attraverso la formazione, la monetizzazione dell’articolo 18, il taglio delle pensioni di anzianità, senza riflettere sulle cause, tutte italiane, dell’esplulsione dal mercato del lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori anziani, condannandoli alla disoccupazione in attesa delle pensioni. Sono stati questi, per esempio, i cavalli di battaglia del mio amico e neo-politologo Michele Salvati; il quale dopo avere espresso tutto il suo disprezzo per le singole proposte concrete avanzate nel “Manifesto per l’Italia” (…”Non ci ho trovato nulla”) si è dedicato all'obiettivo, secondo lui prioritario, di promuovere una  scissione “consensuale” nei DS, che liberasse la strada per un Partito Democratico, se possibile, con pochi dirigenti ex comunisti (i gregari possono andare bene). Un esempio da laboratorio delle trasformazioni genetiche di tipo zelighiano che può determinare nelle persone migliori una cultura trasformista presa a troppo forti dose.


Si tratta infatti, in tutti questi casi, dei frutti di una lettura datata e superficiale delle grandi trasformazioni che attraversano il mondo, l'Europa e la stessa società italiana. Una lettura che diventa  così necessariamente subalterna agli stereotipi, alle rappresentazioni ideologiche che di queste trasformazioni cercano di dare i gruppi più conservatori delle classi dominanti, ormai in perdita di egemonia.


A ben vedere, la stessa lettura -sia pure in termini simmetricamente rovesciati - e la stessa caduta di autonomia culturale si ritrovano nelle raffigurazioni ideologiche che hanno scandito in questi ultimi anni, in Italia, l'iniziativa dell'estrema sinistra. Per esempio la rivendicazione fordista e egualitaria delle 35 ore settimanali per tutti, sulla scia del dirigismo socialista francese, che ha dato il primo scossone al governo Prodi. Una riduzione che, quando, è stata realizzata per legge, si è tradotta, senza il supporto di una sola ora di sciopero, (tanta era la sua popolarità fra i lavoratori in carne ed ossa), in un aumento spesso insignificante e provvisorio dell'occupazione; ma, soprattutto, nel recupero di un governo unilaterale e discrezionale del tempo di lavoro ( e spesso anche del tempo di vita) da parte del padronato.Per esempio il rifiuto pregiudiziale della Carta dei Diritti fondamentali e del progetto di Costituzione dell'Unione Europea predisposto dalla Convenzione. Per esempio  il referendum sull'articolo 18, dopo che un grande movimento di massa ne aveva impedito la manomissione.


Questa è quindi l'eredità di un trasformismo che ha permeato di sè il linguaggio della politica (la modernità) e il modo di intendere la politica da una parte della stampa e dei media. Per i quali la proposta di una qualche riforma suscita un flebile e provvisorio interesse, soltanto nella misura in cui essa costituisce il pretesto per parlare dei conflitti fra i leaders e per decifrare - dietro - a quella proposta i reali obbiettivi di potere personale che entrano in conto. E questo è il limite provinciale della politica, in Italia che la rende così indecifrabile per gli osservatori internazionali.


Ma questo distacco sempre più marcato fra politica e cultura, fra politica e conoscenza (non solo attraverso i libri ma attraverso le persone) rischia di rendere la sinistra italiana fortemente handicappata nel momento in cui essa è chiamata a fare davvero i conti con le profonde e ingovernate trasformazioni dell'economia, del mercato del lavoro, della società civile e delle loro istituzioni; o quando si tratta di misurarsi con i processi di mondializzazione, con le loro drammatiche contraddizioni ( e per prima la rottura fra chi è in possesso del sapere e chi è stato espropriato del sapere-potere). O  quando si tratta di portare fuori dal conflitto fra iniziati la battaglia per affermare, gradualmente certo, ma senza compromessi sui principi, un'Unione Europea su basi comunitarie, come nuovo terreno sul quale va spostandosi il confronto politico anche su scala mondiale, dando contemporaneamente nuovo respiro  e nuovi punti di riferimento alla vita politica nel territorio.


La sinistra italiana è come imprigionata in una nuova rivoluzione passiva di cui non conosce bene le coordinate, direbbe Gramsci.


Ma come uscire dall'egemonia trasformista e da quello che rischia di diventare un riformismo senza riforme?


Certo lavorando a costruire e a rileggittimare un nuovo soggetto unitario della sinistra che possa concorrere a ridefinire uno schieramento federato, in Italia e in Europa delle forze del centro sinistra.


Ma riuscendo nello stesso tempo a dare a questo soggetto politico la forza di un progetto, e di grandi proposte riformatrici, intorno alle quali ricercare un consenso e un contributo critico non solo nella cerchia dei partiti ma fra tutte le espressioni motivate della società civile. Avvicinandoci non solo ai loro problemi ma anche al loro modo di intenderli e di viverli, senza la boria di chi si sente, in ogni caso, predestinato al governo del Paese.


Costruendo dall'alto e dal basso il progetto riformatore, riconquistando un'autonomia culturale nella lettura dei processi di trasformazione, anche attraverso un confronto aperto con i nuovi protagonisti di una battaglia riformatrice che si sono spesso allontanati da una politica che non li riconosceva come attori del cambiamento. Con i movimenti che negli ultimi due anni si sono fatti strada fra i meandri della politica. Ma anche con le centinaia di movimenti per un obbiettivo (one issue movements) che sono emersi nella società civile. Con i sindacati. Con le migliaia e migliaia di associazioni volontarie.


Non si tratta di cercare benevolenze o di costruire alleanze che non siano fondate su obbiettivi condivisi; e quindi, prima di tutto, confrontati criticamente. Nè si tratta di andare a questo confronto senza proposte; ma con proposte effettivamente aperte ad un loro cambiamento e un loro arricchimento. Non si tratta di abdicare alle responsabilità di un soggetto politico che aspira a guidare il Paese, ma di costruire e di verificare le ragioni che possono legittimare questa guida, in nome di un grande disegno riformatore che parli al Paese e non a pochi professionisti disincantati della politica. Partire dalle cose scriveva Andrea Margheri.


Così si ricostriuscono i valori capaci di dare un'identità ad una forza di sinistra oggi. (A me, per esempio, sembrava appropriato come obbiettivo della Conferenza programmatica di Milano, il riferimento a: la libertà, i diritti, la persona). Così si costruiscono quelle poche idee-forza indissociabili nella coscienza collettiva dal soggetto politico che ne è portatore. Quelle idee-forza che possono ridare speranza e ragione d'essere ad un'azione politica capace di elevarsi al di sopra degli interessi quotidiani ma che possa effettivamente cambiare la quotidianità in modo più solidale.


Bruno Trentin


(da “l’Unità”,  novembre 2003, articolo poi pubblicato a fine novembre sulla rivista di Andrea Margheri  Gli argomenti umani).