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Negli anni di Torino, di Iginio Ariemma

L'intervento di Iginio Ariemma al convegno svoltosi a  Torino il 19 dicembre.

Il tema – Bruno Trentin e Torino - mi fa piombare, quasi inevitabilmente, nell’autunno caldo e sul sindacato dei Consigli. E’ un tema ricorrente nella riflessione di Trentin. Ci ritorna continuamente: in due libri-intervista, il primo, nel 1980, con Bruno Ugolini, il secondo con Guido Liguori nel 1999; anche il libro che considero più maturo,”La città del lavoro”, è in larga parte dedicato a questa tematica a partire dal pensiero di Gramsci, sia in riferimento al periodo ordinovista, sia in relazione a “Americanismo e fordismo”. Forse soltanto negli ultimi anni, dinanzi alle profonde trasformazioni del processo produttivo e  del mondo del lavoro, la sua riflessione sui Consigli si è allentata: alla ricerca di un nuovo soggetto sociale che ricostituisse il valore centrale del lavoro in collegamento organico con il sapere e con la conoscenza.L'intervento di Iginio Ariemma al convegno svoltosi a  Torino il 19 dicembre.

Il tema – Bruno Trentin e Torino - mi fa piombare, quasi inevitabilmente, nell’autunno caldo e sul sindacato dei Consigli. E’ un tema ricorrente nella riflessione di Trentin. Ci ritorna continuamente: in due libri-intervista, il primo, nel 1980, con Bruno Ugolini, il secondo con Guido Liguori nel 1999; anche il libro che considero più maturo,”La città del lavoro”, è in larga parte dedicato a questa tematica a partire dal pensiero di Gramsci, sia in riferimento al periodo ordinovista, sia in relazione a “Americanismo e fordismo”. Forse soltanto negli ultimi anni, dinanzi alle profonde trasformazioni del processo produttivo e  del mondo del lavoro, la sua riflessione sui Consigli si è allentata: alla ricerca di un nuovo soggetto sociale che ricostituisse il valore centrale del lavoro in collegamento organico con il sapere e con la conoscenza.



1955: il crollo della FIOM alla FIAT



Il primo contatto vero con Torino e soprattutto con la Fiat Bruno Trentin lo ha avuto dopo la sconfitta del 1955 della FIOM. Faceva parte dell’Ufficio studi della Cgil nazionale ed era uno dei più stretti collaboratori di Giuseppe Di Vittorio; fu mandato a Torino con l’obiettivo di studiare e capire meglio l’organizzazione del lavoro alla Fiat e le sue trasformazioni relative all’applicazione del sistema di cottimo Bedaux. Il gruppo di lavoro era formato, oltre che da Bruno, da Sergio Garavini, Bruno Fernex ed Aventino Pace, il compagno a me più vicino. Il tramite è stato sicuramente Vittorio Foa. Foa, dopo aver diretto la Fiom torinese subito dopo la Liberazione, era stato chiamato da Di Vittorio a dirigere l’Ufficio studi della Cgil nazionale nel 1949, e dopo la sconfitta della Fiat era stato nominato segretario della Fiom nazionale con Agostino Novella. Foa e Bruno si erano conosciuti pochi mesi prima della Liberazione a Milano. Insieme avevano scritto l’appello di Giustizia e Libertà per l’insurrezione milanese. Bruno, poi, si laurea a Padova nell’istituto di filosofia del diritto di Norberto Bobbio e alla fine del ’49 viene chiamato da Foa in CGIL. Insieme  erano stati nel Partito d’Azione dividendosi però nell’autunno del 1947 quando il PdA si sciolse. Foa aderì al Partito Socialista, Bruno invece stette due anni in una posizione di attesa e di fiancheggiamento del PCI, finché  si iscrisse al Partito. Il rapporto tra Trentin e Foa è  stato fraterno, politicamente   Bruno sentiva Vittorio compartecipe di una sinistra libertaria. Qual’è il significato dell’adesione al Pci di Bruno? Foa continuava a chiederselo. Ne parlammo a casa sua anche questa estate. Così scrive Foa in “Il cavallo e la torre” :  “Di Vittorio aderiva sinceramente al partito comunista, ma lo desiderava a sua immagine e somiglianza. In questo Bruno Trentin sarebbe stato assai simile” (p.194).



Il lavoro comune sulla Fiat  costruì le fondamenta della solidarietà e della sintonia tra Bruno Trentin e il gruppo dirigente sindacale torinese che sarà alla testa della Camera del Lavoro alla fine  degli anni Cinquanta. Uno di questi dirigenti Bruno Fernex, diventerà tra i più stretti e preziosi collaboratori di Bruno alla Fiom nazionale. La comunanza di idee si basava sostanzialmente su due punti:

1)     il neocapitalismo è una realtà. E’ il titolo, ritenuto allora provocatorio, di un articolo di Foa apparso nel 1957 su “Mondo operaio”. Ora sembra una banalità, ma allora non lo era affatto. Prevalente era la concezione che il capitalismo italiano fosse arretrato e “straccione”. Con tutto ciò che ne consegue sul piano della strategia politica mirata non al socialismo ma al compimento della rivoluzione democratica e liberale. Inoltre prevaleva un marxismo un po’ dogmatico secondo il quale i rapporti di produzione ostacolano lo sviluppo delle forze produttive e quindi il crollo del capitalismo è, se non imminente, storicamente inevitabile.  Una concezione che può essere definita catastrofista o, come veniva detto allora, malthusiana.

2)     La realtà del neocapitalismo comportava di  ritornare in fabbrica, partire dalla condizione operaia e  da quel fordismo e taylorismo che allora si stava diffondendo alla Fiat e che veniva considerato una organizzazione del lavoro scientifica, razionale, oggettiva e quindi incontestabile nelle sue basi di fondo non soltanto dal padronato ma anche da Lenin e persino da Gramsci ,sia pure in modo contraddittorio, come rilevava criticamente Bruno. Il gruppo di lavoro  mirava alla contrattazione integrativa articolata, fabbrica per fabbrica, sulla base di nuovi strumenti di rappresentanza e di controllo  dei lavoratori e del sindacato. Il punto di  partenza era che l’alienazione del lavoro si supera a partire dal lavoro, cambiando l’organizzazione del lavoro, non fuori di essa. Rimarrà tale e quale anche negli anni successivi.



Tra le carte di Bruno ho trovato una lettera a Togliatti del 2 febbraio del 1957 di notevole interesse a questo proposito. Togliatti, in un intervento al Comitato centrale del Pci, aveva detto che non spettava ai lavoratori “prendere iniziative per promuovere e dirigere il progresso tecnico” e che “la funzione propulsiva nei confronti del progresso tecnico si esercita unicamente attraverso la lotta per l’aumento dei salari”. Trentin contesta questa affermazione e scrive:”Francamente noi pensiamo che la lotta per un controllo e un giusto indirizzo degli investimenti nella aziende presupponga in molti casi una capacità di iniziativa da parte della classe operaia suI problemi connessi con il progresso tecnico e la organizzazione del lavoro che tenta di sottrarre al padrone la possibilità di decidere unilateralmente sulla entità, gli indirizzi, i tempi di realizzazione delle trasformazioni  tecnologiche e organizzative. Una simile iniziativa, appare, almeno a noi, come la condizione, in molti casi, per poter dare alla contrattazione di tutti gli elementi del rapporto di lavoro (e quindi anche dei tempi di produzione, degli organici e delle stesse forme di retribuzione) un suo contenuto effettivo: poiché la nostra impossibilità di contrapporre ad un dato indirizzo degli investimenti aziendali un nostro indirizzo porrebbe dei limiti sostanziali agli sviluppi della contrattazione aziendale”. Come si vede in questa lettera c’è già quasi tutto ciò che succederà nell’autunno caldo; e siamo all’inizio del 1957.



Trentin  ha dato spessore teorico a questo modo di concepire il sindacato e  la lotta operaia. Come sempre scriveva molto, per sé e per gli altri. Si trovano suoi articoli e saggi su tutte le riviste collegate al partito e al sindacato. Prende parte al Centro ricerche economiche presso l’istituto Feltrinelli sulla questione settentrionale (sottolineo che siamo nel 1957) sotto la guida di Silvio Leonardi e di Luciano Cafagna;  partecipa ai convegni  sul progresso tecnico e  sulle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro.  Trentin però, a differenza del gruppo dirigente della CdL e  Foa,  non collabora nel 1961al primo numero dei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri. Pur comprendendo esserci una parte di verità nelle tesi di Panzieri “sull’uso capitalistico delle macchine” era critico nei confronti delle diatribe teoriche sul “ piano del capitale”  e soprattutto temeva lo scivolamento su posizioni  aprioristiche e addirittura luddiiste contro il progresso tecnologico da parte del movimento dei lavoratori. In questo era davvero “figlio” di Di Vittorio.

La sistemazione più completa del suo pensiero si trova nella relazione che svolge nel convegno del 1962 sulle tendenze del capitalismo italiano promosso dall’Istituto Gramsci. In esso già ci sono gli assi fondamentali della sua concezione sindacale e politica; e ,come è noto, le sue idee sul laburismo cristiano e della CISL e sulle dottrine neocapitalistiche,  che spaziavano a vasto raggio sulla letteratura americana e europea , forse “sopravvalutando la consistenza della modernizzazione industriale italiana”,  attirarono la polemica anche aspra da parte di Giorgio Amendola, che si irritava se sentiva parlare di alienazione e di controllo operaio e soprattutto, come ha detto giustamente Beppe Berta, “dialogava piuttosto con Ugo La Malfa che con Antonio Giolitti” e, aggiungo io, con Foa, Panzieri e gli altri revisionisti di destra e di sinistra..



Quando si riflette sugli anni ‘50 non si può però ignorare “l’altra” vicenda che ha segnato profondamente la generazione di Trentin. Mi riferisco alla rivoluzione ungherese del 1956. Anche per questo  si cementò un forte legame tra Trentin e il gruppo dirigente del sindacato torinese. Come Trentin Sergio Garavini ed  Egidio Sulotto, allora segretario della CdL, ebbero la stessa posizione di Di Vittorio di deplorazione e di condanna dell’intervento sovietico. Trentin era succeduto da poco tempo nella responsabilità di segretario della cellula comunista della Cgil a Giovanni Parodi, altro legame con la Torino ordinovista.

La cosa è importante in sé, come si può comprendere. Ma è ancora più significativa se si pensa che, è proprio a partire da quella vicenda, in Bruno ma anche in Sergio Garavini come in altri, si avvia la loro ricerca sul rapporto tra democrazia e socialismo e in particolare tra la democrazia operaia e quella che verrà definita la via statale al socialismo. Con tutti i suoi derivati: ruolo e autonomia del sindacato come soggetto politico; negazione non soltanto del sindacato unico ma anche del partito unico; ricerca del nesso tra democrazia diretta e democrazia parlamentare e rappresentativa; e così via..

Va sottolineato che sia Trentin  che Garavini, nonostante la presa di distanza, restano nel PCI, non rompono con il partito; né si prestano a quella che Bruno definiva in modo sprezzante la guerra per bande,  né allora né dopo. Per esempio nella vicenda del Manifesto  entrambi si astengono per questioni di metodo essendo contrari alla radiazione  e alla non possibilità di manifestare il dissenso, mentre nel merito esprimono la loro non condivisione con le posizioni del Manifesto. Non si può sostenere che non abbiano condotto nel partito battaglia politica ma sempre in modo aperto e leale, avendo come  punto  di riferimento politico comune – in quel periodo -  Pietro Ingrao. Ingrao mi ha raccontato la sua scoperta della classe operaia e di Torino in quegli anni. E’ stato un cambiamento di 360° per lui che aveva in  mente , così mi ha detto, “l’assalto al palazzo d’inverno”.



Il sindacato dei consigli



Torino è stata certamente l’incubatrice principale dei Consigli dei delegati. Ha pesato ovviamente l’eredità di Gramsci. Ma il processo è stato tutt’altro che facile. Il Partito comunista torinese, soprattutto attraverso Adalberto Minucci era molto attento alla problematica operaia. Nel 1956 Minucci aveva avviato sull’Unità torinese una vivace discussione sull’organizzazione del lavoro della Fiat, sui delegati e sulla riduzione dell’orario.  Il problema dei Consigli tuttavia non era facile perché, a livello nazionale, forti erano le resistenze e le ostilità nei confronti dei delegati, come testimoniò il seminario della direzione del partito del 1970. Resistenze e ostilità che conducevano alla paralisi e all’immobilismo o al massimo a ripristinare attraverso i Consigli una sorta di nuova cogestione, come quella,  già fallita, del periodo 1945-‘49, come mi sembra che suggerisse Agostino Novella. Questa posizione ovviamente aveva influenza anche a Torino.  Inoltre c’era la contestazione da sinistra non meno pressante e fuorviante mentre si cercava di costruire i delegati tra i lavoratori e i contenuti della contrattazione. I gruppi estremistici, a partire dal più consistente, Lotta Continua, rifiutavano la novità dei delegati (i delegati bidone); altri come il Psiup torinese e anche il Manifesto li consideravano come gli strumenti, i motori  di un costruendo movimento politico di massa,  che pertanto dovevano essere sottratti alla influenza del sindacato. L’eredità ordinovista ha pesato non soltanto in positivo ma anche in negativo, illudendo qualcuno che si potesse riaprire  un processo rivoluzionario come quello del biennio 1919-1920, e che la guerra di posizione, pure suggerita da Gramsci, dovesse essere trasformata in guerra di movimento

Allora ero responsabile del partito delle fabbriche. Rovistando tra le carte del “Gramsci piemontese”, l’anno scorso ho trovato due documenti da me scritti proprio sui delegati. Uno, del marzo 1970, è una sorta di circolare indirizzata a tutte le organizzazioni di partito di fabbrica e territoriali che riprende e illustra le decisioni della conferenza di Genova di FIOM, FIM e UILM in cui si stabilì che  i delegati erano gli strumenti di base del sindacato unitario. Il secondo, dell’autunno dello stesso anno,  è un appunto scritto a mano con un titolo presuntuoso “I delegati e la strategia del Pci”, e non so come sia finito all’Istituto Gramsci. In esso l’orientamento è più libero anche se è un testo incompiuto e si ipotizza gramscianamente una dialettica più ampia e autonoma tra delegati e sindacato. Ho riportato questo episodio per dire come fossero aperte allora la riflessione e la ricerca sui Consigli dei delegati.



C’erano differenze, accenti diversi tra Trentin e il gruppo dirigente della CdL? Francamente allora non me ne sono accorto. Ho riletto le due relazioni che Trentin e Garavini, a cavallo tra il 1970 e il 1971, svolsero sulla “storia della Fiat”, all’Unione cultuale presieduta da Franco Antonicelli, e non ho riscontrato sostanziale diversità. Garavini anni dopo, nel1999, recensendo “L’autunno caldo” di Trentin, scrive su “La rivista del Manifesto” che Trentin  avrebbe identificato in modo troppo rigido i Consigli di fabbrica con il sindacato; e, insinua, che eccessivo sarebbe stato l’accento sulla lotta  per il potere in fabbrica. Una più ampia autonomia dei Consigli –scrive Garavini- li avrebbe fatti uscire dalla stretta delle confederazioni sindacali e avrebbe evitato che la lotta per il potere “si rovesciasse passo passo soprattutto in un discorso di moderazione salariale”. In ciò vede la causa fondamentale del “successo parziale  e transitorio dei Consigli” .

Sicuramente Bruno Trentin è stato un  tenace, coerente e forse intransigente sostenitore del Sindacato dei Consigli.  Forzando un po’ la mano diceva che non c’è Consiglio di fabbrica che non è sorto per iniziativa del sindacato. Temeva soprattutto la deriva spontaneistica dei Consigli, come testimonia l’accordo alla Fiat  dove il “Consiglione” della Mirafiori viene diviso in tre comitati (cottimo, qualifiche, ambiente) ai quali viene dato il potere di contrattazione. Temeva che la deriva spontaneistica conducesse alla ingovernabilità della fabbrica e in ultima analisi al corporativismo aziendale. Egli era decisamente contrario alla cogestione,  in quanto la conflittualità, regolata in modo democratico, era portatrice di libertà e di sviluppo.

I Consigli dei delegati –dirà a Firenze sul convegno dei due bienni rossi- (20-22 settembre 2004)- avevano come obiettivo “non la socializzazione dell’impresa ma il cambiamento del rapporto tra governati e governanti “. In quella occasione non nega il carattere libertario del 1968 e dell’autunno caldo, ma, senza giri di parole, mette in guardia  dalla “ illusione che un consiglio di fabbrica possa gestire una fabbrica per conto delle migliaia di lavoratori dipendenti”. “Non è una illusione - Invece dice - che apra un confronto permanente con la direzione dell’impresa sul modo con cui può essere gestita”. Per funzionare i Consigli devono essere pluralisti al proprio interno e soprattutto devono essere parte

di un sindacato rinnovato che risponda non soltanto agli iscritti ma a tutti i lavoratori, un sindacato che fa dell’autonomia programmatica e dell’unità la sua bandiera; un sindacato che considera prioritaria “la riforma istituzionale della società civile”.



Alla ricerca delle ragioni della sconfitta



Il colpo di grazia al sindacato dei Consigli è stato dato dalla sconfitta alla Fiat nel 1980. Ma i campanelli di allarme si sono sentiti parecchio prima. Trentin ritorna spesso sulle cause del progressivo logoramento di questi organismi ed individua due cause principali. La prima, interna, il non essere stati capaci di seguire e controllare le trasformazioni del processo produttivo, di dare cioè una risposta positiva alla crisi del fordismo che le lotte operaie dell’autunno caldo avevano messo in luce. Un ruolo negativo a questo riguardo, secondo Bruno, è stato svolto dall’egualitarismo astratto che,  con il suo livellamento, non solo offre armi di divisione al padronato, ma nega la libertà nel lavoro e del lavoro. Già nel ’62, al convegno sul capitalismo, aveva posto come uno dei problemi di fondo l’alleanza con i tecnici. Con gli anni sono venuti meno il ricambio e il controllo operaio, ciò ha portato alla burocratizzazione dei delegati e del sindacato dei consigli soffocando la democrazia consiliare.

Questa analisi è sostanzialmente comune a Trentin e al gruppo dirigente torinese della CdL. Credo che abbia ragione Adriano Ballone quando, nelle linee di storia della Cdl di Torino, afferma che il libro “Gli anni duri alla Fiat” di Pugno e Garavini  è stati scritto anche per rilanciare i Consigli di cui si vedevano i primi germi di stanchezza e di crisi. Era il 1974. Ovviamente ha pesato molto l’arenarsi dell’unità sindacale. Alla radice della comunanza di idee non c’era soltanto l’esperienza fatta insieme,  ma qualcosa di più profondo , seppure difficile da cogliere: la comune passione , se così posso dire, per il lavoro operaio, per il mestiere, per l’esercizio delle capacità professionali e tecniche. Non posso dimenticare il modo, orgoglioso e insieme fiabesco, con cui Emilio Pugno parlava del suo lavoro all’Aeritalia, sotto una campana di vetro, oppure, più tardi, quando descriveva l’importanza nei processi produttivi dei microprocessori. Tra Trentin e Pugno potevano emergere valutazioni differenti sulla  lotta salariale(ma nel giugno 1969, momento culminante della sconfitta della linea salarialista e antidelegati di Lotta Continua, le incertezze hanno riguardato più il partito, che il sindacato) , ma non ho mai sentito né l’uno né l’altro parlare di operaio-massa o di essere propenso ad acconsentire alla seconda categoria per tutti.



In secondo luogo,  c’è la questione del cosiddetto sbocco politico delle lotte; era diventata assillante; non c’era riunione in cui non venisse sollevata da parte dei dirigenti sindacali. Ricordo un incontro, richiesto dai dirigenti della CdL, con Enrico Berlinguer che avvenne in un seminterrato di un albergo in collina dove il segretario era ospite. Se ricordo bene l’incontro avvenne nel 1972  prima del compromesso storico. Berlinguer ascoltò attentamente le domande e gli interventi (eravamo al massimo 10-15) e dopo aver chiesto a sua volta a Pugno e agli altri dirigenti sindacali se ritenevano possibile una alternativa di sinistra rispose che nella situazione attuale occorreva battersi per introdurre elementi di socialismo ma soltanto in una prospettiva di alternativa democratica.

Trentin,  nei confronti di una prospettiva di vertice e di uno sbocco politico governativo,  ha sempre avuto diffidenza e forse una sottovalutazione. Nell’intervista audiovisiva del 1998, da cui è tratto il film di Franco Giraldi, dice che la mancanza della prospettiva politica è stata decisiva per determinare il logoramento e la sconfitta. Sostanzialmente sono d’accordo. Evidente è stata la sfasatura o meglio la non “giuntura” tra le lotte operaie e i processi politici unitari tra le forze di sinistra e tra le forze democratiche. Nonostante l’eccezionale durata di esse, ben più lunga di quelle del maggio francese e degli altri paesi occidentali.

Del resto molto netta è sempre stata in Bruno l’ avversione critica ad una concezione del potere verticistica di matrice leninista.  Mi convinco sempre più che  il suo orizzonte  sia sempre stato quell’abbozzo di Costituzione, che suo padre Silvio, poche settimane prima di morire, nel marzo 1944, gli aveva dettato in una clinica alle porte di Treviso, quando aveva poco più di diciassette anni. Una costituzione  molto avanzata, che ha come obiettivo la costruzione di una repubblica ,  di chiara marca federalista,  che guarda all’Europa e che si fonda e  articola nei consigli aziendali e territoriali. Quello che prefigura è un vero e proprio Stato dei Consigli, che cerca di comporre liberalismo e comunismo. Infatti si apre con l’affermazione dei grandi principi della libertà della persona, dell’autonomia istituzionale, della proprietà collettiva e della giustizia sociale. Così recita il testo originale, con correzioni autografe, depositato al Centro Gobetti di Torino.

Questo progetto istituzionale e socio-politico è stato per Bruno la sua permanente utopia, cioè il modello immaginario di società a cui pensava. Lo si ritrova in tutti i momenti importanti del suo corso sindacale e politico: nella relazione del convegno del Gramsci del 1962,  nel convegno su “Scienza e organizzazione del lavoro” del giugno 1973, a Torino; in “ Da sfruttati a produttori” del 1977, ne “La città del lavoro “ del 1997, fino agli  ultimi scritti..

Il che non significa che Trentin non ricercasse quelli che allora venivano chiamati gli obiettivi intermedi. Negli anni Settanta si discuteva molto, all’interno del PCI e della sinistra, sul progetto a medio termine di rinnovamento della società e dello Stato in direzione del socialismo. La ricerca aveva un punto di approdo  concreto: la conquista di riforme strutturali, in uno stretto intreccio con il rinnovamento delle istituzioni rappresentative e con la creazione di forme nuove di democrazia operaia e di base. La politica dell’austerità - ma proposta soltanto  nel 1977- è stata parte integrante di questo progetto. Verso di essa Bruno mostrò interesse e  anche condivisione, vedendone il  tentativo di proporre una politica fondata  sul nesso risanamento ed elementi di socialismo, che andava al di là dell’ingresso nella  “stanza dei bottoni”.



Vittorio Angiolini, nel recente convegno su “Trentin e il futuro del sindacato dei diritti” ha sostenuto che Bruno ha una visione eretica della democrazia perché antepone la conquista della libertà cioè la possibilità di autotutela e di autoaffermazione.In altri termini rovescia l’idea che “l’affermazione della democrazia, del suffragio universale e della possibilità del popolo di decidere a maggioranza venga prima e sia l’unica strada e non solo la precondizione della garanzia a qualunque libertà o diritto”.  E’ quindi una democrazia che scaturisce dal basso, dalla società civile riformata, in cui la stessa sovranità popolare è il frutto e la sintesi delle libertà e dei diritti, individuali e collettivi.  Per lo stesso motivo secondo Bruno i diritti sociali non devono venire dopo i diritti civili ma hanno la stessa portata al fine di garantire eguale opportunità a tutti i cittadini. Anche la libertà nel lavoro e del lavoro è un diritto di cittadinanza perché attraverso di esso la persona si realizza e si afferma. Alcuni hanno visto in questo modo di pensare  una eccessiva concessione alle teorie liberali.  Ma Bruno è stato sempre molto attento, sulla base dell’insegnamento di suo padre ed anche  per lo studio delle correnti cristiane più moderne,  a distinguere tra individuo e persona. Al centro della sua riflessione non è l’individuo ma la persona che lavora, che nel lavoro cerca la propria identità, che dunque ha un progetto di vita ed è fonte di relazioni umane e sociali. La persona è l’individuo  che diviene valore. La sua è  prima di tutto una visione etica della libertà..

Il sindacato dei diritti che è stato lanciato da Trentin, alla fine degli anni Ottanta, quando è diventato segretario generale della Cgil, parte da questa riflessione, perché deve conquistare gli spazi – appunto i diritti - entro cui tutti i lavoratori esercitano la propria libertà. Per Trentin  il sindacato dei diritti. è   rinnovamento nella continuità., come si sarebbe detto un tempo, in quanto riprende sia la lezione di Di Vittorio, quando le fabbriche erano poche e molti erano i braccianti e i disoccupati, sia l’esperienza  del Sindacato dei Consigli.



La città del lavoro



E’ indubbio che il movimento operaio esce sconfitto dagli anni Settanta. Il perché di questa sconfitta non è tutt’ora chiaro. Non c’è  tra di noi un bilancio puntuale condiviso delle cose realizzate grazie alle lotte operaie  (Statuto dei diritti dei lavoratori, riforma delle pensioni e della sanità, affermazione di rilevanti diritti civili, ecc) e di quelle non realizzate; in particolare la mancanza di quelle riforme strutturali che hanno lasciato nel Paese, tale quale se non aggravato, quello spessore antidemocratico o meglio a-democratico sul quale si è innestato l’anticomunismo berlusconiano.  Sulla sconfitta ha pesato sicuramente il terrorismo, ma non basta a spiegarla.

Poche settimane dopo la sua morte ho riletto “La Gerusalemme rimandata” di Vittorio Foa che mi aveva detto l’estate scorsa essere il libro che amava di più. Effettivamente è un gran bel libro. Lo ha scritto dopo il 1980, quando aveva oltre 70 anni, in una ricerca fatta a Londra, durata oltre 4 anni. E’ il racconto delle lotte degli operai inglesi nel primo ventennio del Novecento per affermare il diritto al controllo operaio, attraverso i Consigli e gli shop stewards. La classe operaia arrivò alla soglia della vittoria ma poi venne sconfitta. Per Foa la Gerusalemme, cioè la terra promessa, è la libertà del lavoro e nel lavoro. Dopo quella sconfitta prevalse in tutto il mondo la teoria del socialismo di stato, sia pure fratturata in due grandi metà: nella forma proposta dai partiti comunisti o in quella laburista e socialdemocratica. Non prevalse – scrive Foa -“la classe operaia che lavora per sé”

La “Città del Lavoro” di Bruno Trentin ha, a mio parere, la stessa ispirazione: capire le ragioni della sconfitta dell’autunno caldo e dei Consigli e cercare di trovare un nuovo ruolo centrale al lavoro, dando una riposta alla crisi del fordismo che aiuti i lavoratori a promuovere e a favorire la loro autonomia e unità. Evitando la seconda “rivoluzione passiva” , così come era avvenuta negli anni 1919-1920 del primo dopoguerra. Bruno, purtroppo, la vedeva già in corso; e,secondo lui, sarebbe stata più grave e pesante della prima che Gramsci aveva studiato e analizzato.

La “Città del lavoro” è la sua utopia,la sua “Città del sole”. Il fascino del pensiero e l’eredità di Bruno Trentin , a mio parere, stanno soprattutto in questo: cercare, sempre cercare, con tenacia e senza dogmatismi, di comporre l’utopia e la quotidianità, la progettualità e le proposte concrete e le soluzioni che trasformano e migliorano, giorno per giorno, la vita innanzitutto dei lavoratori.  Ci ha lavorato fino all’ultimo: un nuovo statuto dei diritti dei lavoratori con  al centro il rapporto del lavoro, fisso e flessibile, con la formazione permanente, ad ogni età e per tutta la vita; un welfare comunity  che abbia come obiettivo prioritario non soltanto la sicurezza, ma il diritto all’occupabilità e alla conoscenza; una nuova contrattazione, sempre basata sul controllo dell’organizzazione del lavoro da parte dei lavoratori; l’invecchiamento attivo. E’ vero, Bruno cercava sempre di compiere un passo più in là, di alzare l’asticella del traguardo, come è stato detto. Ma parlare di astrattezza o addirittura di fuga in avanti mi sembra proprio sbagliato, se si intende la politica – cosa sempre più rara – come disegno per il futuro e come promozione di libertà e di uguaglianza.