Salta al contenuto principale

Convegno: Milano Capitale della Resistenza

Pubblichiamo gli atti del Convegno, "Milano capitale della Resistenza".  L'iniziativa organizzata dall' ANPI e dalla Fondazione Di Vittorio, si è svolta sabato 28 marzo a Milano, (Palazzo Marino).

Introduzione di Carlo Ghezzi, Segretario della Fondazione Di Vittorio

Il convegno di oggi, che viene ospitato dal prestigioso Salone Alessi e che per la concessione del quale ringraziamo vivamente il Comune di Milano, è promosso dall’Anpi nazionale e dalla Fondazione Giuseppe di Vittorio ed ha come oggetto una riflessione specifica su Milano nella Resistenza e si tiene dopo che lo scorso anno, proprio in questa stessa sala, avevamo organizzato un altro convegno di grande interesse e del quale abbiamo prodotto gli Atti, editi da Ediesse, che aveva discusso dei grandi scioperi del marzo del 1944.

Siamo ormai alla vigilia del 25 aprile e del settantesimo anniversario dello sciopero generale insurrezionale proclamato dal Cln che ha concluso vittoriosamente la Resistenza e l’obiettivo che ci poniamo oggi è quello di ricostruire, o meglio, di contribuire a mettere ulteriormente a fuoco le diverse anime che hanno dato vita e sostenuto la Resistenza, quelle politiche ma anche quelle sociali.

Vogliamo discutere della Resistenza intesa come di un movimento che ci pare molto più popolare rispetto a quello che certa storiografia vorrebbe accreditare e abbiamo scelto di farlo partendo proprio da Milano.

Partendo dalla città simbolo che è stata definita sin dal 1945 la capitale del movimento di Liberazione ed a questa definizione, per molti aspetti magari pomposa e forse un po’ enfatica, si è giunti per molti motivi. Non soltanto per la posizione geografica della città e per il suo ruolo di centralità che ha storicamente assunto nel sistema politico e produttivo del Nord Italia. Non solo perché a Milano si riuniva ed operava il Comando del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e quindi vi passavano i rapporti diplomatici con gli Alleati e tra le forze politiche.

Ma anche perché Milano è stata il cuore pulsante delle principali culture che si confrontarono e che si scontrarono: è la città che seppe portare a sintesi le elaborazioni più lucide del socialismo, del cattolicesimo democratico, dell’azionismo, del comunismo ma perché fu anche il luogo che non casualmente Mussolini scelse per la sua ultima apparizione pubblica.

Milano è stata nell’immaginario collettivo italiano ed europeo la “fabbrica”, è stato il luogo del mondo del lavoro che ha scioperato nel 1944 e che ha conferito una dimensione sociale alla Resistenza italiana sconosciuta ad altre realtà europee, ma è stata anche la città dell’imprenditorialità e della finanza più autorevole del paese nonché di importanti esponenti delle professioni che, pur tra tensioni e contraddizioni, hanno visto diversi suoi esponenti che hanno spalleggiato il movimento popolare e hanno scommesso sulla transizione democratica.

Il mondo cattolico ha partecipato attivamente al movimento resistenziale milanese e la Curia ambrosiana si è impegnata in prima persona per un passaggio dei poteri capace di contenere i traumi più dirompenti operando attivamente per preservare la convivenza civile.

La Liberazione del 25 aprile del 1945 a Milano ha contenuto tutte queste anime, ognuna con la sua importanza, con la sua storia e con il suo anelito di cambiamento democratico che faranno della Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 il luogo più ispirato dell’intera storia nazionale.

Il convegno che abbiamo voluto organizzare intende restituire al dibattito attuale questa complessità dedicando la nostra attenzione e i contenuti delle by softonic" href="#73469248" xzf9="1" 91c4="1" f4x8="1" kbsmfcvfuxif="1">relazioni specifiche che verranno presentate dai nostri illustri relatori, che intendo ringraziare anticipatamente a nome di tutti noi; relazioni che saranno mirate sia alle forze sociali che sono state protagoniste della Resistenza, che alle diverse componenti politiche della Liberazione e infine al comando della Resistenza medesima che aveva sede proprio a Milano.

 

Saluti

Giuliano Pisapia – Sindaco di Milano

 Cari Amici, Care Partigiane, Cari Partigiani, a 70 anni dal 25 Aprile Milano non dimentica i giorni decisivi della nostra storia: la storia della nostra libertà; soprattutto, Milano non dimentica gli uomini e le donne che ne sono stati i protagonisti con il loro coraggio, con la loro lotta, con il loro sacrificio.

La Resistenza è stata ed è la bellezza, la forza, la vitalità di Milano. E’ stata la lotta di un popolo che ha amato ed ama la libertà. Una lotta di tutti gli italiani, un movimento di tutto il popolo verso un ideale di pace e libertà di cui tutti dobbiamo essere fieri e orgogliosi.

Credo che in un momento di crisi economica e sociale così difficile per il Paese, sia particolarmente importante riappropriarci di quello spirito.

Oggi come allora è necessario riscoprire valori condivisi e unificanti, capaci di creare coesione nella società e unità nell’impegno per l’affermazione del bene comune.

Quella vittoria e quella lotta di popolo hanno avuto un costo altissimo: la nostra città in particolare ha pagato un terribile tributo di sofferenze e di lutti.

La preoccupante affermazione, in Italia e in Europa, di movimenti illiberali, xenofobi, che a volte si richiamano apertamente al fascismo, ci mostra in modo chiaro che la Resistenza e l’antifascismo sono più attuali che mai.

Ci dice che l’opposizione alla violenza, al razzismo e a ogni forma di intolleranza deve rimanere una pregiudiziale assoluta nella vita politica e sociale.

La Resistenza però - e questo dobbiamo ricordarlo sempre - non è solo un movimento “contro” qualcuno o qualcosa.

Ridurla alla sola lotta contro il nazifascismo significa, in un certo modo, sminuirla, sottovalutare il suo valore positivo e creativo.

La Resistenza è stata il cantiere di quella coscienza democratica che ha fatto dell’Italia un Paese civile e libero.

È stata la palestra dove si è formata una generazione di italiani capace di guardare al bene comune e capace di costruire - pur nel confronto e nella contrapposizione - una prospettiva di crescita civile, economica e sociale.

Pensiamo solo alla nostra Costituzione: la testimonianza più alta di quella capacità creativa, di quella volontà di fondare un’Italia nuova e migliore.

A Milano negli ultimi mesi della guerra i nazifascisti, ormai sconfitti dagli eserciti alleati, dagli scioperi degli operai e dalla lotta dei partigiani, si abbandonarono alle rappresaglie più feroci contro i patrioti che lottavano per l’indipendenza e la libertà del Paese.

Penso al campo Giuriati, in cui tra gennaio e marzo 1945, vennero assassinati dai fascisti 15 giovani partigiani: alcuni di loro erano poco più che maggiorenni.

Un crimine assurdo e atroce, che si aggiungeva ai tanti di cui si macchiarono i nazifascisti alla vigilia della Liberazione.

Milano non vuole rimuovere nessun momento di quei giorni di libertà: vuole un ricordo tenace di ogni volto, di ogni attimo, di ogni gesto; il nostro dovere è quello di salvaguardare, con il ricordo e la conoscenza, la libertà e la democrazia che con il loro sacrifico ci hanno donato.

Una libertà che oggi è finalmente patrimonio di tutti, anche di coloro che quella libertà l’hanno sempre negata e combattuta.

Per questo serve un percorso di conoscenza e che unisce tutta la città e tutti quartieri di Milano.

È un lavoro che in questi anni abbiamo portato avanti con decisione, che proseguirà nei mesi a venire e che verrà arricchito dalla realizzazione del museo della Resistenza all’interno della casa della Casa della Memoria, un altro importante luogo di memoria e di cultura.

In questo percorso l’Anpi e il Sindacato, sono stati e sono alleati decisivi. Con loro difendiamo la memoria della Resistenza e nell’opera indispensabile di studio e di diffusione della conoscenza tra tutti i cittadini e i giovani in particolare.

Si apre tra pochi giorni l’Esposizione Universale 2015. C’è un rapporto con la Resistenza, con il settantesimo anniversario del 25 Aprile. La risposta è sì. Ed è evidente: i valori di pace, progresso e giustizia sociale che la Resistenza ha messo a fondamento della Repubblica sono i valori per cui Milano oggi combatte la sua battaglia. Una battaglia non più armata, ma armata di progetti, di idee, di dialogo. Expo è un concentrato di progetti e di idee sul tema delle risorse alimentari e sulla loro distribuzione equa a tutta l’umanità. Noi insieme dobbiamo lavorare perché Expo rimanga quello che è: non un evento solo mediatico, ma un momento di svolta culturale, di cambiamento vero della mentalità, delle priorità, delle scelte.

Milano città medaglia d’Oro della Resistenza è - e continuerà ad essere - un esempio di tolleranza e di libertà. Continuerà ad essere quella città democratica, solidale e giusta per cui hanno combattuto, sofferto e vinto i nostri partigiani.

Roberto Cenati, Presidente dell’Anpi di Milano

 Sulla facciata di Palazzo Marino, una targa ormai poco leggibile ricorda la motivazione della Medaglia d'Oro alla città di Milano, collegando le epiche Cinque Giornate di Milano, le congiure mazziniane e le battaglie del primo Risorgimento, con quelle del Secondo Risorgimento, termine con cui la Resistenza viene definita.

Milano viene giustamente definita capitale della Resistenza. Anche nei momenti più bui della repressione fascista, Milano seppe resistere. Vi fu in quegli anni la pubblicazione di un interessante numero di giornali e riviste semiclandestine. Dal luglio 1924 al maggio del 1925, Ferruccio Parri, Riccardo Bauer e alcuni loro amici avevano fatto uscire un giornale intitolato “Il Caffè”, che riprendeva lo stesso titolo della rivista di Pietro Verri del 1764. Carlo Rosselli fondò a Milano insieme a Pietro Nenni la rivista «Quarto Stato», il cui primo numero era uscito il 27 marzo 1926. La rivista avrà vita breve, venendo chiusa a novembre con l'entrata in vigore della legge sui «provvedimenti per la difesa dello Stato».Nonostante l'intensificazione della repressione poliziesca accentuatasi nel 1938, quando il governo fascista, succube della Germania nazista, si apprestava ad entrare in guerra, l'opposizione si allargava, trovando consensi non soltanto nelle fabbriche, ma anche tra intellettuali e studenti. Un gruppo di artisti si raccolse intorno a Vita giovanile, fondata da Ernesto Treccani, una rivista che in seguito si chiamò Corrente di vita giovanile e infine Corrente alla quale aderirono numerosi giovani intellettuali, tra cui Raffaele De Grada, Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Giansiro Ferrata, Alfonso Gatto.

A pieno titolo Milano, quindi, si deve definire capitale dell' antifascismo e della Resistenza.

Nella nostra città avevano sede il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui fu Presidente e tesoriere Alfredo Pizzoni, e dal giugno 1944 il Comando del Corpo Volontari della Libertà. Ma Milano è stata anche la città protagonista dei grandi scioperi del marzo-dicembre 1943 e di quello del marzo 1944. I lavoratori milanesi, dell'area industriale di Sesto San Giovanni e dei Comuni dell'hinterland, pagarano duramente, con la deportazione, questa straordinaria mobilitazione.

A Milano agiva il Fronte della Gioventù la più estesa organizzazione dei giovani impegnati nella lotta di Liberazione in Italia, costituita verso la fine del 1943 da Eugenio Curiel, che riunì nella sacrestia della Chiesa di San Carlo al Corso giovani antifascisti di varie appartenenze politiche (Gillo Pontecorvo, Raffaele De Grada, Aldo Tortorella, Quinto Bonazzola) d'accordo con padre Camillo De Piaz e padre Davide Maria Turoldo. Per iniziativa di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi il 27 agosto 1943 a Milano, in via Poerio 37, in casa di Mario e Rita Rollier viene fondato il Movimento federalista europeo.

Milano fu, sin dall'entrata in guerra, città difficile per il regime fascista, anche se il 16 dicembre 1944 verrà scelta da Mussolini per il suo ultimo comizio al Lirico. Si può quasi subito avvertire, già nel Giugno 1940, una certa freddezza verso la guerra. “A soli due giorni dall'entrata in guerra dell'Italia – si legge nel libro di Luigi Ganapini Una città, la guerra (Milano 1939-1951) - un allarme aereo aveva dato alla popolazione l'occasione per constatare che i rifugi antiaerei mancavano o erano inadeguati”. La protezione antiaerea è il primo momento dello sgretolarsi dell'immagine efficiente del regime e del partito.

Per tutta la seconda metà del 1941 si susseguono nei rapporti di polizia segnalazioni di malumori e di sfiducia. Le donne sono in prima fila nelle proteste sul fronte degli approvvigionamenti. Ai primi di giugno del 1942 molti rapporti parlano di una consistente protesta a Sesto San Giovanni di donne scese in piazza per ottenere la distribuzione delle patate. Solo l'arrivo di cinquanta agenti da Milano avrebbe permesso di sciogliere l'assembramento grazie a getti d'acqua.

Dal dicembre 1942 si cominciano a registrare “manifestazioni di malumore” alla Breda, all' Alfa Romeo, alla Magneti. Queste espressioni di protesta e di ostilità toccano tutti gli aspetti di una condizione di vita che si va facendo insostenibile: i rifornimenti alimentari, i pericoli della guerra, la normativa del lavoro sotto la disciplina militare, la regolarità delle retribuzioni. Sono segni di un'opposizione frammentata e disgregata che comunque indica l'affiorare di una coscienza straordinariamente decisa che troverà lo sbocco negli scioperi del marzo-dicembre 1943 e in quello del marzo del 1944.

La classe operaia sembra dimostrare una certa riluttanza che si protrae sino all fine del 1944 ad impegnarsi con le Sap in una lotta a più vasto raggio. Tuttavia tra la fine del 1944 e gli inizi del 1945 la situazione cambia profondamente. Alle spietate fucilazioni di rappresaglia dei nazifascisti rispondono nei primi mesi del 1945 attacchi improvvisi e simultanei alle caserme e ai comandi nemici; contro una ventina di essi agiscono, la sera del 6 febbraio del 1945, da due a trecento uomini delle Sap. Sono azioni che sgomentano e inferociscono repubblichini e tedeschi. E che attirano nelle file combattenti nuovi uomini, conquistati al disegno di passare dalla difesa delle fabbriche all'attacco su più vasta scala.

A Milano fu fondamentale, nei giorni della Liberazione, il ruolo svolto dalla Guardia di Finanza che agì con tale tempestività e risolutezza da risparmiare lutti e rovine alla città.

Fu Leo Valiani a scrivere, nella serata del 25 aprile 1945, l'ordine di insurrezione, affidato per la sua esecuzione alla Guardia di Finanza.

“Lo mandai – osserva Valiani – al colonnello Alfredo Malgeri tramite Augusto De Laurentiis. Egidio Liberti era nella caserma 5 Giornate della Guardia di Finanza nell'ufficio di Malgeri. Insieme elaborarono il piano insurrezionale operativo e lo eseguirono brillantemente all'alba. La sorpresa per i fascisti e i tedeschi fu totale. Il mattino presto del 26 aprile, la Prefettura, e tutti gli uffici pubblici di Milano erano presidiati dalla Guardia di Finanza, che li consegnò al CLNAI e alle nuove autorità democratiche da esso designate.”

Il colonnello Alfredo Malgeri, così racconta nelle sue memorie: “Verso le 8 del 26 aprile dò l'annunzio alla città dell'avvenuta liberazione, facendo suonare per tre minuti le sirene del posto centrale di avvistamento aerei.” Milano si libera addirittura prima dell'arrivo dei partigiani dell'Oltrepo pavese, nel pomeriggio del 27 aprile 1945.

Antonio Greppi nel suo primo, breve discorso da Sindaco della Milano liberata, così dichiarò: “Ora noi lavoreremo insieme e certo avremo una sola volontà e un solo cuore. Il nostro compito non è facile, ma Milano ci aiuterà. E noi la vedremo risorgere giorno per giorno dalle sue rovine.

E Onorina Brambilla Pesce che tutti noi ricordiamo con commozione così ricordava quei giorni: “Milano era ferita dalla guerra, dai bombardamenti, dalla fame. Non possedevamo nulla, ma avevamo tanta gioia e speranza. Eravamo liberi, eravamo felici. Si lavorò subito per tornare alla normalità. Il primo segno tangibile dei nostri sforzi fu il ritorno del pane bianco sulle nostre tavole.”

 

Graziano Gorla, Segretario Camera del Lavoro di Milano

 Sono molto onorato di portarvi i saluti dalla Camera del Lavoro di Milano per questa ricorrenza del 70° Anniversario della Liberazione del nostro Paese da quella che è stata la dittatura nazi – fascista.

Come definito dallo storico Pavone, che per me è stato uno dei più autorevoli studiosi per ricostruire la Resistenza, questa fase storica non ebbe paragone con quanto accadde altri paesi in Europa.

In nessun altro paese d'Europa vi furono degli scioperi così imponenti, così importanti e con una partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici, così ampia, come importante sappiamo è essere stato l'apporto decisivo dopo la promozione di questi scioperi delle lavoratrici e dei lavoratori per liberare il nostro Paese. Questa è stata, come diceva Pavone, la Resistenza. Tre guerre in una, una guerra patriottica contro i tedeschi invasori, una guerra civile di popolo contro il fascismo ed anche una guerra di classe combattuta nel nome di una radicale trasformazione sociale e per il riscatto del proletariato.

Considerato il ruolo che ho l'onore di ricoprire ragionerò con voi proprio sull'apporto dato dalle lavoratrici e dai lavoratori milanesi alla Resistenza.

In quegli anni la Pirelli, la Falck, la Borletti, la Breda, la Marelli, la Franco Tosi, l'Innocenti, solo per citare alcune delle più importanti fabbriche di questa metropoli, furono protagoniste dell'opposizione ai tedeschi e ai fascisti e gli scioperi che vennero proclamati e realizzati, sia quelli economici del marzo'43 sia quelli politici del '44, furono indispensabili per indebolire e contrastare l'occupazione straniera e i soprusi fascisti.

Con lo sgretolarsi in quegli anni delle istituzioni, soprattutto nel '44 ed all'inizio del '45 nelle nostre città, non solo a Milano le fabbriche rimasero un punto di riferimento, ma i lavoratori e le lavoratici che erano stati uniti dagli scioperi e dalle manifestazioni seppero mantenere un'inedita unità a dispetto di quello che era lo sfaldamento di tutti i gruppi sociali nel difendere la propria fabbrica, nel difendere il proprio lavoro, nel cacciare i tedeschi, nell’abbattere il regime fascista, nell’ottenere la fine della guerra e per realizzare una nuova società più giusta e più egualitaria. Voglio ricordare il ruolo importante delle donne che nella Resistenza fu decisivo e spesso viene trascurato. In particolare le lavoratrici svilupparono una rete organizzativa basata sulla costituzione nelle fabbriche dei nuclei della difesa della donna sostenere per la Resistenza e i combattenti per la libertà.

E' la prima grande e unitaria organizzazione femminile; non va dimenticato come moltissime ebbero il coraggio di opporsi apertamente alla violenza fisica e psicologica del fascismo dei repubblichini e dei nazisti anche se non era sempre così facile. Bisognava aggregare le persone a partire dalle loro motivazioni, dai bisogni veri, dai problemi quotidiani che vivevano le famiglie con il bisogno del pane mentre la fame era terribile e partire da lì per suscitare il coraggio di uomini e donne che se fossero stati chiamati solo a lottare contro la dittatura forse avrebbero avuto qualche esitazione perchè la posta in gioco era molto alta, non bisogna mai dimenticarlo, era la propria vita.

Aldo dice ventisei per uno; è il testo del telegramma che è stato diffuso dal CLN alti Italia ed indicava il giorno 26 all'una di notte come il momento in cui si doveva dare inizio all'insurrezione per Milano, città Medaglia d'oro per la Resistenza.

La Liberazione invece inizia la sera del 24 Aprile, quando insorge Niguarda e il 25 Aprile i Partigiani sfilano per le strade mentre i tedeschi e i fascisti sono in fuga; il sindacato era a quel tempo clandestino per via della sua abolizione da parte del regime fascista che aveva abolito ogni forma di libertà politica e civile come quella di manifestazione del pensiero che non fosse stato solo il pensiero fascista. Il palazzo della Camera del Lavoro, costruito negli anni '30 quale sede dei sindacati fascisti, fu conquistato dai partigiani il giorno il 25 aprile del 1945 e venne consegnato alla CGIL unitaria il giorno seguente. Il 26 aprile rinasceva la nostra Camera del Lavoro, sede del sindacato unitario e da allora per Milano e per i suoi cittadini è diventato ed è ancor oggi la casa del lavoro. Gli uomini, le donne che hanno ricostruito la nostra Camera del Lavoro provenivano direttamente dalle file della Resistenza, erano stati arrestati e confinati perchè erano antifascisti come Gaetano Invernizzi o come Teresa Noce, avevano anche combattuto con le Brigate Internazionali in Spagna come Giuseppe Alberganti, erano stati direttori di giornali antifascisti come Ferdinando Santi. Molte sindacaliste erano state staffette partigiane, erano sindacaliste, erano gappiste ed erano animatrici dei gruppi per l'emancipazione della donna, erano dattilografe a servizio del CLN come Carla Acquistapace, Stellina Vecchio, e Nori Brambilla. Sarebbe difficile, anzi, quasi impossibile comprendere l'impegno politico del movimento sindacale di quello delle lavoratrici di quello dei lavoratori senza richiamarci al loro antifascismo.

Quello che ci contraddistingue ancora oggi è una forte attenzione alla condizione dei lavoratori nel loro insieme perchè è un insegnamento che abbiamo ricevuto aldilà dei motivi strettamente legati alla singola categoria o al singolo interesse: il nostro impegno di ideale e politico parte da lì e guardate per testimoniare questo pensiero a me piace sempre citare un breve passo di un discorso di Giuseppe Alberganti, che era allora segretario della Camera del Lavoro di Milano, che proprio quando fu riaperta la Camera del Lavoro di Milano pronunciò alla radio in occasione della riapertura disse:

“Dopo oltre 20 anni di sindacalismo fascista e di soppressione delle libertà sindacali di ritorno a tutte le fabbriche e nei luoghi di lavoro e forme di sfruttamento schiavista la nostra Camera del Lavoro grazie all'eroismo dei lavoratori riprende la sua libertà”.

Oggi come allora c'è un filo rosso che collega la nostra iniziativa l'ambizione di volere rinnovare le strutture economico – sociali del paese e l'intreccio tra quelle che sono la rivendicazioni più elementari e le politiche di ampio respiro. L'insegnamento più importante di quello che quei lavoratori ci hanno consegnato è a mio giudizio l'importanza dell'unità, della solidarietà tra le persone, l'importanza di credere in qualcosa per migliorare e da costruire tutti quanti insieme. Ci hanno insegnato ad amare la libertà, ci hanno insegnato ad apprezzare la democrazia la partecipazione. Per realizzare questo anche oggi come allora c'è bisogno di fare la nostra parte. E' l'ora di una rinnovata unità, affinchè ogni tentativo di dividere il fronte democratico e progressista sia respinto e venga respinto ogni tentativo di riscrivere la storia e proprio oggi, qui in Piazza Oberdan, c'è un presidio di Forza Nuova che farà l'elenco di quei libri di storia che secondo loro sono hanno raccontato bugie su quanto è successo dall'Olocausto alla guerra di Resistenza.

Bisogna fare quanto ci proponiamo sapendo che dobbiamo trasmettere e infondere alle nuove giovani generazioni lo spirito di quell'unità anti – fascista e la consapevolezza dell'importanza della democrazia.

Noi tentiamo di farlo come Camera del Lavoro anche portando da alcuni anni nelle scuole della nostra città di Milano il progetto che abbiamo chiamato “Cronache della Resistenza”, un progetto che è coordinato dal nostro Archivio storico in collaborazione con l'ANPI e con altre realtà milanesi attive come noi nel diffondere i valori della Resistenza. L'obiettivo è proprio quello di eliminare la distanza esistente tra i ragazzi che oggi hanno 17 o 18 anni e la generazione che ha dovuto lottare per ottenere la libertà forniamo semplicemente agli studenti gli strumenti per comprendere rispetto a due visioni del mondo: quella fascista fatta di sopraffazione, di razzismo, di disuguaglianza, di mancanza di libertà e quella democratica a volte è più difficile, più complessa ma più affascinante perchè crede nella solidarietà, nell'uguaglianza, nella partecipazione tra gli uomini e le donne e tra i popoli nella ricerca della libertà e nella speranza in un futuro migliore.

Così parliamo loro con lealtà e con semplicità per trasmettere loro quella speranza che abbiamo ben presente quando parliamo dei partigiani e delle partigiane che hanno permesso all'Italia di uscire da una dittatura e di diventare un Paese libero e democratico.

 

Relazioni

Prof. Adolfo Pepe, Direttore della Fondazione Di Vittorio - “Il mondo del lavoro e delle forze sociali”.

 Io credo che rinnovare, come ha detto con molta efficacia il Sindaco, la riflessione sugli avvenimenti che riguardano la storia delle principali città italiane, delle classi sociali e dei gruppi intellettuali nel tornante drammatico della crisi del fascismo, della guerra e del percorso faticosissimo e denso di contraddizioni che portò il Paese a ristabilire condizioni di libertà e democrazia sia non solo un obbligo civile di educazione per i giovani ma anche un dovere di verità per tentare di andare un pochino più a fondo nella storia di questo Paese.

Una lettura non facile che per quanto riusciamo ad aggiornare volta per volta è sempre piena di sorprese e di chiavi di lettura inedite. Io, dopo le ottime introduzioni che hanno fornito in larga parte il quadro della realtà che Milano ha vissuto nei giorni dell'insurrezione e della Liberazione, vorrei sottoporvi due o tre considerazioni, ovviamente un po' schematiche ma che credo corrispondano a quanto dicevo all'inizio cioè al bisogno di rileggere sempre ed aggiornare di continuo i caratteri della nostra storia.

Non sappiamo se siamo in fondo ad una crisi, se ne stiamo uscendo, in quale direzione, chi sta guidando verso questa direzione e quali sono le forze sociali e culturali sulle quali in qualche modo si può fare affidamento. Partirei dallo stretto rapporto che c'è nella storia italiana tra le vicende del mondo del lavoro, del mondo operaio organizzato, e le identità delle città. Perchè il rapporto che si crea tra la presenza organizzata e l'identità storica delle città italiane, che preesiste alla formazione del mondo del lavoro, è un rapporto particolare che ridisegna confini e orizzonti di dinamiche sociali già molto ricche di sfaccettature. Un processo che a volte può risultare estremamente positivo per un'evoluzione democratica anche di città culturalmente avanzate come Milano. Nel capoluogo lombardo non si può certo negare la presenza, precoce e radicata, di una borghesia e di un ceto culturale molto dinamici e progrediti; a Milano ci sono i segni di una amministrazione Austro – Ungarica avanzatissima e di una Chiesa capace di un'apertura sociale sconosciuta ad altre realtà della penisola.

Ma nonostante questa realtà progressista e foriera di buona amministrazione e notevole sviluppo economico, è indubbiamente soltanto con la presenza organizzata del mondo del lavoro che Milano riesce in qualche modo a proiettare la sua funzione su scala davvero nazionale.

E' un elemento da non sottovalutare. La storia italiana è una storia punteggiata dall'intreccio tra le identità cittadine delle grandi, piccole e medie città e ciò che avviene intorno al movimento operaio organizzato.

Per Milano parlerei di tre momenti significativi: il 1898, quando la città di Milano, come ci ricordava un insigne storico cattolico, sembra esprimere tensioni sociali ed economiche e richieste politiche fortemente in contrapposizione con la politica nazionale sviluppando una sorta di opposizione carsica ma senza soluzione di continuità al decennio del sangue Crispino contro i lavoratori, decennio che approda simbolicamente allo scioglimento delle Camere del Lavoro; proprio a Milano si raggiunge il culmine della politica repressiva e lo Stato liberale, per così dire, compie la sua parabola reazionaria con le fucilate di Bava Beccaris alla popolazione inerme che chiedeva il pane.

Milano è all'opposizione ed è un'opposizione ambigua e complessa; è il segno che Milano aveva avuto un ruolo non centrale nel percorso di costruzione dello Stato unitario e questo la dice lunga sui caratteri dello Stato unitario perchè Milano era già allora la modernità sul piano delle forze sociali, dello sviluppo economico e culturale: rappresentava l'altra Italia, l'Italia europea che in tutti i modi cercava di agganciarsi alla modernizzazione. Questa Italia, che trovava in Milano il suo crogiolo, non aveva contribuito in maniera determinante a quell'asse Risorgimentale che si era dispiegato lungo il rapporto che passava tra Torino, Roma e Napoli. Milano non poteva assumere in nessun modo un ruolo di direzione nello Stato unitario Liberale ed il 1898 è l'epilogo e il punto di svolta della marginalità. Di contro questa opposizione è anche il segno che lo Stato unitario liberale acquisiva dei tratti antioperai e antimoderni repressivi e che il Liberalismo senza Milano, ed il movimento operaio, finiva con il diventare autoritarismo, repressione e antimodernità. Dopo l'ondata repressiva del 1898, nell'arco di un biennio, le classi dirigenti compirono la cosiddetta svolta Giolittiana che non a caso aveva il suo centro nell'accordo con il mondo del lavoro organizzato attraverso il riconoscimento dei suoi diritti e della sua legittimità: non a caso la svolta ebbe il suo corso nelle città industriali, e in particolare a Milano, nel tentativo da parte dello Stato liberale di riprendere quello slancio che lo sviluppo economico sembrava poter garantire.

E' stato ricordato che Milano è stata il crocevia decisivo per trasformare un movimento agrario nato nelle terre del conflitto bracciantile più duro della Puglia e dell'Emilia in un movimento nazionale vincente: il fascismo mussoliniano. Ma il secondo passaggio decisivo che riguarda il movimento operaio e la città è esattamente quello del 25 aprile.

Qui siamo alla prima vera grande affermazione del movimento operaio e di Milano come la capitale dell'altra Italia. I valori del movimento operaio, i suoi interessi che sono sempre stati altri rispetto a quelli sui quali era stata costruita la grande narrazione nazionale si impongono come elementi fondanti della nuova Repubblica postfascista. Milano assume il ruolo della nuova capitale che ha guidato la Liberazione, la Resistenza e la lotta contro il fascismo che si affermano come premesse indispensabili per la costruzione di un'Italia democratica.

Questo è il passaggio nel quale Milano opera la sua riconciliazione con la storia nazionale. Milano è la capitale di Italia tout – court: non che Roma scompaia, naturalmente, ma il dualismo che si forma nel triennio drammatico della guerra 1943-1945 che divide drammaticamente il Paese si conclude inevitabilmente (e non poteva essere che così) con l'affermazione di una forza egemonica, il famoso vento del Nord, che non è un'invenzione letteraria, e per la prima volta lo Stato italiano si viene potenzialmente ad identificare con la parte migliore e più moderna dell'Italia, quella estraneità dell'età liberale sembra colmata.

La democrazia, la Costituzione, la Repubblica si costruiscono sul ruolo decisivo che conquistano i lavoratori e sul fatto che questo ruolo si realizza a partire da Milano che proietta una potenza politica, sociale, e culturale su tutto il Paese.

Nei mesi successivi l'Italia guarderà a Milano come il punto di riferimento per chiudere con il fascismo e avviarsi a una nuova stagione E questo, io credo, sicuramente il punto più alto della parabola unitaria e del mondo del lavoro prima che si aprano i nodi ancora irrisolti della storia repubblicana per molti versi complicata e anche tragica.

Allora io ritengo che se una comunicazione va fatta ai giovani sulla storia di questo Paese gli vanno ricordati alcuni elementi di fondo che in quel tornante che fu il triennio 1943-45 posero.

Il primo. La guerra fu una guerra fascista, la qualificazione della guerra è decisiva perchè ogni guerra non è un fatto che riguarda esclusivamente i militari (con tutto il rispetto ovviamente per il ruolo dei militari); le guerre hanno dei decisori politici, sono le classi dirigenti, sono gli Stati che decidono la guerra e la seconda guerra mondiale per l' Italia fu una guerra fascista e questo ha la sua importanza dirimente perchè la guerra fascista e il modo con il quale fu persa rimanda direttamente alla modalità sulla quale era stata costruita la macchina politico militare e ideologica del fascismo. E' il fallimento di quel progetto che si realizza durante la guerra con tutte le responsabilità del regime.

Il fascismo non aveva la benchè minima idea di che tipo di guerra si stava preparando per il Paese. Non aveva la benchè minima idea che non si trattava della ripetizione della Prima guerra mondiale e non si trattava di ripetere la guerra di trincea ma che i mezzi tecnologici, le strategie politiche degli attori in campo erano orientati alla guerra totale nella quale non c'è la distinzione tra chi vive nelle retrovie e nelle città e chi combatte al fronte. Tutta la popolazione di un Paese era coinvolta drammaticamente nel processo distruttivo della guerra.

Non avere capito questo ha portato il regime ad una sconfitta che è stata più di una sconfitta perchè le guerre si possono esportare, vincere o perdere ma in qualche modo deve essere garantita una sorta di dignità e continuità dello Stato e della comunità. Noi dobbiamo essere chiari: la sconfitta e le modalità in cui avvenne portarono il dissolvimento istituzionale e la rottura territoriale del Paese, una cesura di proporzioni tali da delegittimare lo stesso Paese a livello internazionale togliendoli quello status di pari dignità con gli altri Paesi era stata già una difficile conquista del periodo Risorgimentale. Di fronte a questa china, che vede il risvegliarsi dell'antifascismo politico che si era opposto al fascismo ma non era riuscito a mettere in crisi il consenso sociale del regime, durante la guerra mentre salta il blocco sociale che aveva costituito la base delle avventure imperialiste di Mussolini nasce una dimensione spontanea del dissenso nelle nuove generazioni. Attraverso la Resistenza si compie una mediazione, che coinvolge la popolazione civile e gli operai organizzati, che salda l'antifascismo politico con un movimento di lotta che ha come obiettivo la creazione di uno Stato democratico. Nel grande movimento politico, civile e militare che andrà a comporre la Resistenza ci sarà come obiettivo unificante e irrinunciabile quello di riunire il Paese, di ridare una legittimazione internazionale al Paese che il regime fascista aveva sacrificato sull'altare di un'ideologia violenta e barbarica.

E' questo, io credo, il messaggio più forte e oggettivo che noi dobbiamo dare alle nuove generazioni: questo Paese ha avuto una cesura nella sua storia non lunghissima e c'è stato chi l'unità l'ha ricostruita, l'ha ricementata su valori solidi di democrazia e nel fare questo ha anche ridato al Paese una dignità internazionale. Unità statale, territoriale, dignità e rilegittimazione internazionale sono le conquiste dell'antifascismo e della Resistenza: averle ottenute attraverso le conquiste del mondo del lavoro e da Milano rimane una grande acquisizione di speranza che conferisce all'Italia la legittimità per stare nel complesso internazionale a pieno titolo.

 

Dott.ssa Chiara Colombini, ricercatrice di Istoreto – "Gli Azionisti"

 1. Il «partito dei fucili» e la rivoluzione democratica

Giovanni De Luna per descrivere la vicenda del Partito d’azione e della sua precoce scomparsa dopo il ruolo da protagonista avuto nella Resistenza, ha usato un’immagine efficace, quella del «partito dei fucili» che non riesce a trasformarsi, a guerra conclusa, in «partito delle tessere»1.

Parto da questa immagine perché consente di tenere insieme due aspetti essenziali della riflessione che vorrei condividere: il rapporto degli azionisti con la Resistenza e il loro radicamento sociale (su quest’ultimo punto tornerò in chiusura).

Nella Resistenza, il Pda “spende”, per così dire, tutto se stesso, con un totale coinvolgimento, fino a identificarvisi. Questo elemento è segnalato prima di tutto dalle date che racchiudono la sua vicenda – dalla fondazione nell’estate del 1942, alla scissione consumata al primo congresso nel febbraio 1946, fino al definitivo scioglimento nell’ottobre del 1947 – date che precedono e seguono di poco il biennio 1943-1945. Ma non si tratta solo di una coincidenza cronologica.

Norberto Bobbio ha definito quella del Pda come ideologia della Resistenza, distinguendola da questo punto di vista dalle ideologie tradizionali (liberalismo, comunismo, socialismo, cattolicesimo), che ha preferito indicare come ideologie nella Resistenza, dal momento che, scrive Bobbio, «la loro storia così come affonda le radici nell’era prefascista allunga nuovi rami nell’era postfascista. Passarono attraverso la Resistenza, ma non vi si identificarono». Invece, ha osservato, per il Pda la Resistenza «fu la condizione stessa del suo nascere, l’orizzonte in cui si iscrisse, il limite, positivo e negativo, della sua efficacia»2.

La caduta del regime il 25 luglio 1943 e ancor di più l’armistizio dell’8 settembre e la conseguente occupazione tedesca, per il Pda, pur nella loro tragicità, rappresentano un’occasione storica, secondo l’espressione cara a Guido Dorso. È una lettura che deriva dall’interpretazione del fascismo.

Per gli azionisti il fascismo non è una parentesi nella storia nazionale (secondo l’analisi di Benedetto Croce e di buona parte dei liberali), né una reazione di classe soltanto (secondo l’analisi marxista): è l’autobiografia della nazione (come sostenuto da Carlo Rosselli, e prima di lui da Piero Gobetti), rivela cioè i limiti del carattere degli italiani e dello sviluppo della storia nazionale. Questo vuol dire che il fascismo affonda le sue radici nell’Italia prefascista.

Alla luce di questa lettura, per gli azionisti la crisi che si apre con l’8 settembre è un appuntamento con la storia, un momento in cui diventa possibile ricostruire l’Italia dalle fondamenta, sotto il profilo istituzionale, sociale e culturale, non soltanto sconfiggendo e sradicando il fascismo, ma anche impedendo la rinascita del vecchio Stato liberale prefascista (a partire dalla monarchia) e del blocco di potere sociale ed economico che lo ha sostenuto. È il progetto della rivoluzione democratica.

Come ha recentemente scritto Luca Bufarale, nella bella biografia dedicata alla giovinezza politica del prefetto della Liberazione di Milano, Riccardo Lombardi, «La visceralità dell’antifascismo degli azionisti – spesso sbrigativamente interpretata come frutto di un atteggiamento “moraleggiante” – sta alla base della loro concezione che si potrebbe dire potenziata della democrazia», una concezione che implica, prosegue Bufarale, «la costruzione di una repubblica democratica capace di far sentire partecipe “il più gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti […]”».

Condensare in un progetto politico univoco l’elaborazione del Pda è un’operazione complicata, possibile solo a patto di accettare forti semplificazioni: come è noto, infatti, il partito riunisce intellettuali di formazione e orientamento politico diversi.

Sorge dalla confluenza di almeno tre componenti differenti (quella liberaldemocratica che ha come centro Milano; quella liberalsocialista che fa perno su Firenze e l’Italia centrale; quella degli eredi di Giustizia e Libertà, che ha forti basi a Torino); e la sua fine è stata spesso interpretata come il frutto del contrasto, già delineatosi nel corso della Resistenza, tra una destra su posizioni liberali riconducibile a La Malfa e una sinistra socialisteggiante riconducibile a Emilio Lussu.

In realtà proprio nel corso della lotta si definisce con chiarezza un’altra linea di faglia: il contrasto tra i dirigenti nell’Italia liberata costituisce un elemento secondario agli occhi degli azionisti nell’Alta Italia, direttamente impegnati nell’organizzazione della Resistenza, cosicché prende forma una sorta di terzo polo, le cui priorità si definiscono non tanto su questioni ideologiche, quanto piuttosto intorno a temi concreti selezionati dalla battaglia in corso.

In questo senso, al di là del luogo in cui ci troviamo, è imprescindibile guardare alla realtà milanese: quel che è vero per la Resistenza in generale, cioè che Milano si afferma come capitale organizzativa della lotta, è altrettanto vero, in scala ridotta, per lo specifico degli azionisti; qui è il centro militare, qui è il “cervello” organizzativo e politico del Pda.

A Milano, come accennato, è forte e radicata l’anima liberaldemocratica del partito, che guarda a La Malfa e che ha altri punti di riferimento importanti in Ferruccio Parri, Mario Paggi, Mario Boneschi, Adolfo Tino, Mario e Alberto Damiani, Vittorio Albasini Scrosati; che ha come palestra di discussione “Lo Stato moderno” e che trova un appoggio importante nella Comit di Raffaele Mattioli.

Ma è anche presente il nucleo dell’esecutivo Alta Italia del partito che nell’autunno del 1944 è autore dell’elaborazione espressa in termini più radicali del progetto della rivoluzione democratica.

Mi riferisco alla Lettera aperta del Partito d’Azione a tutti i partiti aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale del 30 novembre 1944, alla cui stesura lavorano Leo Valiani (segretario del partito dell’Alta Italia dal principio del 1944), Riccardo Lombardi, Altiero Spinelli e Vittorio Foa. È un documento che suscita perplessità nello stesso Pda (provocando la dissociazione di Paggi e Albasini Scrosati), che non ottiene risposte positive dagli altri partiti cui è rivolto, e che negli anni è stato oggetto di un ampio dibattito storiografico su cui non c’è modo di fermarsi.

Però quel documento è utile per comprendere quanto la lotta in corso incide sul progetto politico.

Con quella lettera si propone da un lato di fare del Clnai un organo che assuma veri e propri compiti di governo (dando inizio all’epurazione, a provvedimenti fiscali e finanziari, al sequestro delle aziende che traggono profitto dall’occupazione, alla creazione di forze di polizia imperniate sulle forze partigiane), dall’altro di puntare sul massimo sviluppo possibile degli organismi di massa, i Cln locali e delle varie categorie, i gruppi di difesa della donna, il fronte della gioventù ecc.

Non è una proposta di democrazia diretta, nel senso che non si pensa a fare di questi organismi la struttura esclusiva delle istituzioni del nuovo Stato. Ma c’è l’idea forte che la lotta armata abbia attivato nella società energie riposte, che ci sia quindi la possibilità di cominciare da subito una ricostruzione delle istituzioni dal basso, prima che l’occasione storica si esaurisca e che, come già sta accadendo nell’Italia liberata, la ricostruzione si avvii sugli stessi binari dell’Italia prefascista.


2. La politicizzazione delle formazioni e la guerra civile

Milano è anche il “cervello” militare, non solo politico. Sotto questo profilo, le formazioni armate che si collegano al Pda fanno capo a Parri, che dall’autunno 1943 è peraltro riconosciuto come «coordinatore centrale» da tutti i comandi che vanno formandosi a livello regionale, fatta eccezione per il comando delle Garibaldi4.

Anche qui va tenuta presente quella difficoltà a ridurre a posizioni univoche cui accennavo, una differenza che però in questo caso non rimanda tanto a orientamenti politici diversi, quanto piuttosto al contesto dei primi mesi della Resistenza: le linee strategiche del movimento partigiano si definiscono progressivamente e, si potrebbe dire, per approssimazioni e aggiustamenti successivi.

Parri dopo l’8 settembre guarda con speranza alla possibilità di recuperare parti dell’esercito sbandatosi con l’armistizio, nelle quali innestare il contributo di cittadini volontari: è un modello di esercito di popolo, sostanzialmente patriottico, senza aperte connotazioni politiche e men che meno partitiche.

Dalle bande che si formano, a partire da quelle di “Italia libera” che si costituiscono sin dal 12 settembre 1943 sulle montagne cuneesi attorno a Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco, però, sale prepotentemente un indirizzo diverso, nettamente favorevole invece alla politicizzazione delle bande.

Guardiamo alla tripartizione di Claudio Pavone, che ha spiegato la complessità della Resistenza italiana sulla base dell’intreccio di tre differenti guerre (di liberazione nazionale, di classe, civile)5.

Nella lotta condotta dal Pda e dalle sue formazioni l’ispirazione patriottica – contro l’occupante straniero – è certamente presente ed è forte, ma è tutt’altro che esaustiva. Durante la Resistenza e subito dopo, non a caso, gli azionisti per descrivere la propria battaglia usano senza remora alcuna l’espressione guerra civile.

Un’espressione che per decenni sarà poi respinta tanto dai partigiani quanto dalla storiografia, perché impiegata dai reduci di Salò, e dalla pubblicistica revisionista per equiparare le parti in campo, in favore di un’accentuazione della dimensione della guerra di liberazione nazionale, della sua natura solo patriottica, uno dei frutti avvelenati del clima della guerra fredda che da subito costringerà la Resistenza a difendersi da attacchi feroci6.

L’accezione con cui gli azionisti impiegano la definizione di guerra civile ovviamente non ha nulla a che vedere con quella impiegata in ambito revisionista; rimanda invece al concetto di una guerra combattuta per costruire un’altra civiltà, condotta per sradicare il regime che per vent’anni ha permeato di sé il paese. È quindi strettamente collegata alla lettura del fascismo e al progetto della rivoluzione democratica.

Ne dà un saggio chiarissimo Livio Bianco nel resoconto sull’esperienza delle GL nel Cuneese che pubblica nell’estate del 1945 sulla rivista del Pda “Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà”: vedevan la guerra di liberazione – dice dei partigiani azionisti – non come una guerra fra stati, fra «nazioni» e «potenze» e «governi» in conflitto, ma come una vera guerra civile, una guerra ideologica e politica quant’altre mai, una guerra destinata non solo a scacciar gli invasori tedeschi e ad eliminare i traditori fascisti, ma a gettare le basi per un ordine nuovo politico e sociale. […] niente apoliticità delle formazioni, ma anzi, necessità assoluta di una coscienza politica, d’una consapevolezza delle ragioni profonde della lotta e degli obiettivi veri da raggiungere […]7.

E la linea della politicizzazione delle formazioni, accettata infine anche da Parri, viene stabilita dall’esecutivo Alta Italia del Pda nella seconda metà del febbraio 1944, quando si decide di assegnare alle formazioni che si collegano al partito il nome “Giustizia e Libertà”.

Va comunque sottolineato che si tratta di una politicizzazione non strettamente partitica. Entrare a far parte delle formazioni GL non implica cioè un’adesione al Pda; è chiaro che questa prospettiva è auspicata e che nel lavorare all’estensione del reclutamento nelle file GL si guarda alla speranza futura di radicare il partito nel tessuto sociale, in sostanza di fare proseliti.

Ma la politicizzazione delle bande è intesa in senso più generale: basta guardare al ruolo dei commissari politici, che si caratterizza prima di tutto come una funzione di educazione civile, di spiegazione generale delle ragioni ideali della lotta da sostenere.


3. Un partito di quadri

La questione del reclutamento nelle formazioni partigiane si intreccia e rende particolarmente evidente un altro punto centrale, che è quello della rappresentanza, o meglio, della base sociale del Pda.

Le differenti anime del partito si definiscono anche e soprattutto in relazione al referente sociale cui si guarda; se quindi una parte di esso sin da subito articola la propria proposta politica facendo riferimento alla centralità dei ceti medi e alla possibilità di attivarli decisamente in senso antifascista e democratico, altre – ed è ancora una volta la Resistenza a incidere su queste posizioni – intendono rivolgersi agli operai, e più in generale alle classi lavoratrici, protagonisti degli scioperi del marzo 1943 e soprattutto di quelli del marzo 1944, che contribuiscono ad accendere in molti esponenti del partito speranze rivoluzionarie.

Su questo piano, una voce particolarmente interessante è quella di Valiani, significativa per più aspetti: non solo per il suo ruolo nel partito (a cui arriva dopo una lunga militanza nelle file comuniste), non solo perché dal marzo 1945 rappresenterà il Pda all’interno del comitato insurrezionale costituito a Milano (con Luigi Longo e Emilio Sereni per i comunisti e Sandro Pertini per i socialisti), ma anche perché su quella fase è poi ritornato tanto in sede autobiografica che di ricostruzione storica.

In Tutte le strade conducono a Roma Valiani ha ricordato i compagni che, in particolare nel contesto lombardo, si sono adoperati nel lavoro per costituire squadre armate nelle fabbriche, citando il lavoro di Aldo Chiattelli (Chiari), Lavatelli (Savelli), Locatelli, Riva, Antonio Tescari e Bianchi a Sesto; di Leonetto Lazzerini alla Caproni; di Billi alla Borletti; così come ha sottolineato il ruolo di Benigno Marmori, Ernesto Schiavello, Umberto Fogagnolo, Bepi Signorelli quali esperti «organizzatori operai»8.

Ma in sede storiografica, con onestà intellettuale, ha sottolineato la difficoltà degli azionisti di avere “accesso” alle masse popolari:

Mancavano al Pd’A la tradizione, la mentalità, l’esperienza, la duttilità in gran parte la stessa presenza fisica dei suoi militanti sui luoghi di lavoro e nei rioni o località abitati da lavoratori e la capacità di interpretarne le esigenze pratiche, che caratterizzano i partiti di massa.

Aggiungendo poi un tassello ulteriore, che conduce a un altro tratto caratteristico della Resistenza azionista:

Il Pd’A […] era un partito soprattutto di intellettuali e professionisti, ossia, potenzialmente, un partito di “quadri”. Se un partito di questo tipo vuol mettersi alla testa di una guerra di popolo, per renderne esplicito il latente carattere di guerra politica rivoluzionaria, i suoi capi devono supplire alla scarsezza del loro seguito di massa, esponendosi di persona molto più di come la pur necessaria prudenza militare o cospirativa non consentirebbe; devono dare l’esempio nel rischio e nel sacrificio, gettarsi allo sbaraglio essi stessi. La motivazione che i capi del Pd’A davano, in generale, della loro imprudente e perfino temeraria sfida alla cattura e alla morte, poteva suonare moralistica (esprimendo il sentimento di dover condividere in tutto e per tutto la sorte di coloro ai quali si chiedeva di compiere azioni rischiose), il che del resto non toglie nulla alla genuina volontà di lotta a oltranza che conteneva. Ma, al di sotto della motivazione soggettiva, c’era la logica obiettiva che s’è detta9.

 Un partito di quadri che getta tutto se stesso, le proprie energie e i propri uomini migliori nella lotta è l’immagine che ci consegna Valiani.

Occorre però non sovrapporre questa immagine icastica di un partito con – proporzionalmente – più quadri che militanti, con quella, che sarebbe fuorviante, di un esercito con più ufficiali che soldati.

Le formazioni GL – lo ha sottolineato De Luna riprendendo da un lato le cifre riportate da Parri al congresso del 1946 e dall’altro quelle fornite da Pietro Secchia e Filippo Frassati – hanno dato alla Resistenza un contributo numerico secondo soltanto alle Garibaldi (rispettivamente il 20 e il 50% del totale dei combattenti, 232.481).

In termini assoluti, stando a Parri, per l’aprile 1945 si stimano 24.000 partigiani organizzati in 115 brigate di montagna e 11.000 partigiani organizzati in 35 formazioni cittadine; un totale di 22 divisioni (di cui 12 in Piemonte); con 1.800 caduti10.

Le poche indagini ancora oggi disponibili circa la composizione sociale delle formazioni GL sono elementi importanti per confrontarsi con le immagini prima citate: nel Bergamasco, nella Brigata XXIV maggio, gli operai rappresentano il 65%, i contadini il 9%, gli impiegati il 10%, gli artigiani il 6,5%, gli studenti il 4%, i commercianti il 2%, i professionisti lo 0,7%. In Piemonte, la zona più solida per quanto riguarda la forza militare e numerica delle GL, operai e contadini insieme (in parti uguali) rappresentano il 60%, a fronte di un 12% sia di artigiani che di studenti, di un 9% di impiegati, di un 5% di professionisti, di un 4% di commercianti.

Sono certamente sondaggi riferiti a zone limitate e con una caratterizzazione geografica specifica, e pertanto non risolutivi, ma comunque indicativi nel mostrare la realtà di un movimento politico che sa mobilitare ampi strati sociali nella lotta armata. Senza però riuscire a tradurre questa forza militare in militanza politica diretta, un limite che discende anche dal tipo di politicizzazione delle formazioni che si è scelto e che, a fronte delle condizioni date, si è riuscito a praticare nel corso della Resistenza.

Lo sguardo che De Luna ha rivolto al piano nazionale, in questo senso, è impietoso. Gli iscritti al Pda, al momento del primo congresso nel febbraio 1946, sono 267.000, contro il 1.770.896 di iscritti al Pci alla stessa data: «il rapporto di forza tra i due partiti, che, riferito ai partigiani combattenti, era all’incirca di 1 a 3 a vantaggio dei comunisti, si dilatava fino a una proporzione di 1 a 9 riguardo ai rispettivi tesserati»11.

 Riassuntivamente e cercando – per concludere – di individuare un filo conduttore nell’esperienza politica degli azionisti, si può dire che hanno riflettuto su e hanno progettato più un rinnovamento della classe dirigente che non una rivoluzione sociale. Hanno immaginato progetti di Stato che implicavano altrettanti progetti di rinnovamento della società; e per questi progetti si sono battuti, con intransigenza e determinazione.

 

Sen. Giovanni Bianchi, Presidente della Associazione dei Partigiani cristiani - “Il mondo cattolico”.

 "L'aspirante è tra i primi in tutto per l'onore di Cristo re". Questa frase, che apre il Manuale dell'aspirante della Giac (Gioventù Italiana di Azione Cattolica), dovuto in larga parte alla penna di Luigi Gedda, ha segnato la vita di almeno tre generazioni di cattolici italiani a cavallo fra la seconda guerra mondiale e il Sessantotto: come a dire coloro che, uscendo dagli oratori e dalle realtà associative, ebbero il difficile compito di farsi classe dirigente in quella che è stata la più tormentata fase di cambiamento attraversata dal nostro Paese in quasi centocinquant’anni di storia unitaria.

Milano – più di Roma – è la capitale di questo che si è soliti chiamare "mondo cattolico", del quale io stesso ho stilato negli anni qualche certificato di morte, e che invece è sopravvissuto e sopravvive alla secolarizzazione, che pure lo trasforma.

Un dato sociologico di comune dominio dice che ogni domenica otto milioni di italiani si ritrovano insieme sotto le navate di una chiesa per la messa, condividendo, più che una dottrina, com'era nei giorni turbinosi del fascismo, del crollo del regime e del dispiegarsi della Lotta di Liberazione, una fede e il tentativo di ricostruire un progetto di vita, non solo per sé.

Già l'espressione "mondo cattolico" è attraversata da un sottile senso contraddittorio. Quando ci riferiamo alle componenti religiose, sociali e politiche dell'area cattolica pensiamo ad un'area culturale, vasta ma particolare, distinta dalle altre. Il termine "mondo" risulta invece totalizzante e indica un completo sistema di rapporti: un mondo erede del mondo sociale esistente prima dello sviluppo capitalistico.

Un mondo peraltro che ha continuato a vivere e a trasformarsi in quello che Norberto Bobbio definiva "un Paese di diversamente credenti".

Gramsci lo vedeva così: "l'Azione cattolica rappresenta la reazione contro l'apostasia di intere masse, imponente, cioè contro il superamento di massa della concezione religiosa del mondo. Non è più la Chiesa che fissa il terreno e i mezzi della lotta; essa invece deve accettare il terreno impostole dagli avversari o dall'indifferenza e servirsi di armi prese a prestito dall'arsenale dei suoi avversari (l'organizzazione politica di massa). La Chiesa è sulla difensiva".12

La Chiesa è sulla difensiva. È vero. Ma non ci resta volentieri e non ci resta indefinitamente. Milano è la città-test di questo processo che sta sotto i nostri occhi. Due punti di riferimento ha avuto il mondo cattolico in questa Milano durante il ventennio fascista, nel crollo del regime, nella Lotta di Liberazione e nei prodromi della ricostruzione: Schuster e l'Università Cattolica di padre Agostino Gemelli. E quindi una serie di quadri che ne hanno accompagnato l'azione dal centro alle periferie.

Periferie "esistenziali" diremmo nel lessico recente di papa Francesco, più propriamente parrocchiali allora. Con un'avvertenza: chi voglia scegliere un punto di vista dovrebbe guardare più dal lato della quotidianità, dove i movimenti e le istituzioni si incontrano, talvolta entrano in dialettica, comunque sempre convivono dando origine a eventi che li accomunano.

Una condizione e uno sguardo siffatto non devono tuttavia spingere a pensare a una qualche "cinghia di trasmissione". Niente ha più caro il mondo cattolico delle proprie molteplici autonomie, tenute insieme e collegate oltre che dalla fede nel Nazareno da un non mai smesso primato dei processi formativi.

Perché vedeva bene don Giuseppe De Luca quando volendo dar conto dell'unità pluralistica che si articola intorno alla Chiesa istituzione, osservava, con realismo e con sapienza biblica, che i cattolici italiani amano distinguersi in tribù, e ne contano assai più delle dodici di Israele. Sono queste articolazioni interne del mondo cattolico che consentono alla gerarchia di avere un'influenza nelle vicende politiche senza condividerne una responsabilità altrettanto diretta. Più critico ovviamente il giudizio dall'interno dell'area cattolica medesima.

È Pietro Scoppola a farsene carico: "La Chiesa in Italia, durante il periodo fascista si veniva progressivamente trincerando in una concezione etico-politica che riduceva i doveri del cittadino verso lo Stato al rispetto dell'autorità costituita: così ogni tentativo di opposizione politica dei cattolici al fascismo finiva con il cadere sotto il giudizio morale e religioso della Chiesa e alcuni degli interventi della Santa Sede di cui più si avvantaggerà il fascismo poterono apparire giustificati da motivazioni morali e religiose".13

 La cattedra di Milano

 Schuster arriva a Milano quando il fascismo bolla papa Ratti, l'autore della "Quadragesimo anno" e grande intellettuale, come "brianzolo", quasi bastasse a squalificarlo la nascita a Desio.

Quel che probabilmente il regime non si aspettava è l'incontenibile azione pastorale di Schuster. La sua attenzione e la spinta alle molteplici forme dell'associazionismo cattolico, come risposta a una presenza organizzata che, mentre assume i connotati delle vecchie confraternite, va man mano acquisendo gli specialismi necessari al radicamento sociale e alla trasformazione del tessuto civile.

Un'operazione che inevitabilmente va perdendo ove possibile la fisionomia partitica che pure aveva assunto anche nel cosiddetto "mondo cattolico" nel 1919, con il tessuto popolare cui faceva riferimento anche al Nord Luigi Sturzo. E anche se i contenuti strettamente religiosi sembrano prevalere, con accompagnamento di devozioni e pratiche di pietà che potrebbero apparire residuali, tuttavia questa molteplice presenza finisce per riempire un vuoto culturale non altrimenti colmabile.

È la nota differenza che distingue il cattolicesimo italiano e lombardo da quello d'oltralpe, secondo il giudizio di padre Marie-Dominique Chenu. Se i francesi contano numerosi gruppi liturgici e cenacoli intellettuali, le "terre ambrosiane", come le ha recentemente chiamate il cardinale Angelo Scola, risultano invece molto più ricche di cooperative, casse rurali e artigiane, circoli familiari: tutto ciò costituisce un tessuto popolare. Insomma, a un cattolicesimo d’élite in Francia corrisponde un cattolicesimo italiano eminentemente associativo. Cosa vuol dire allora "chiesa ambrosiana"? Fu l'insospettabile Cattaneo a sentenziare: "Il genio di Milano è il cristianesimo civile".14

È dunque questa rete diffusa che resiste alla propaganda del regime e finisce per entrare in concorrenza con i modelli della retorica mussoliniana. L'aspirante di azione cattolica, cui la Regola intima di essere "primo in tutto per l'onore di Cristo re", è in evidente concorrenza con la figura retorica del Balilla protagonista dei giochi sportivi del regime e della paranoia di precoci ludi militari.

Come suggerisce Magrassi, "la Chiesa esige di realizzarsi, ed è solo nella Chiesa locale che può diventare "avvenimento". Diversamente finisce per diventare un'astrazione"15.

Anche il civile delle parrocchie deve fare i conti con questa tradizione, mentre perfino le feste liturgiche possono sembrare in alternativa a quelle nazionali del regime.

Pesa, e come, il lungo lascito dell'intransigenza, di quanti avevano considerato nel Lombardo- Veneto lo Stato Unitario una sorta di scippo storico nei confronti del Vaticano e, con una contorsione teologica scarsamente fondata, ne aspettavano operosi (operosi nel sociale, nelle cooperative, nell'associazionismo) la fine, convinti che portae inferi non prevalebunt…

Evidentemente tutto ciò mette all'ordine del giorno il problema di una classe dirigente.

 La classe dirigente

 La classe dirigente la si pensa in un primo tempo in sintonia con il regime che si dichiara corporativo, per affinità e allusione col corporativismo medievale, e la si vede poi crescere nel momento del crollo mussoliniano come un ceto politico, preparato e allenato, che pratica quasi con naturalezza una fortunata eterogenesi dei fini. I "corporativi" cioè sono pronti all'amministrazione e al governo in sintonia con la nuova democrazia costituzionale.

L'ideale per tutti, al vertice come alla base, è ogni volta uscire dallo stretto ambito devozionale per occupare il sociale, non in nome di una cattolica preponderanza, ma assumendo la guida di un comune percorso di cittadinanza democratica.

Già nel luglio del 1919 Gemelli era stato perentorio: "E’ necessario incominciare ad osare nel nome del Signore, per la difesa della sua Chiesa, per la difesa del patrimonio della nostra fede, per la resurrezione cristiana del nostro Paese".16

"Vita e pensiero", la rivista che esprime l'orientamento dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, è più che esplicita nel proporre una visione culturale alternativa riflettendo sulla morte del professor Toniolo: "Bravi, così! Proprio! I cattolici italiani, se vogliono ricostruire l'Italia, debbono incominciare dal ricostruire la loro filosofia. La guerra attuale ce lo insegna. Fu il Belgio che salvò la causa della civiltà in quest'Europa fremente di sangue. Ma il Belgio sono i cattolici di quel Paese. E il loro rappresentante autentico è il Cardinal Mercier".17

Saranno dunque gli italiani, non soltanto i cattolici, salvati dalla filosofia e dal tomismo. Monsignor Olgiati rincara con irruente omelia la dose: "Ardigò si è tagliata la gola. Papini scrive la Storia di Cristo. Più presto che non si creda, declinerà anche l'idealismo. E, trionfatore di tutto e di tutti, resta il Cuore che tanto ha amato gli uomini."18

Troppo ottimismo tuttavia non aiuta e rende fragile la diagnosi.

 La curia ambrosiana

 Schuster ovviamente governa dall'alto la diocesi inquieta. Monaco benedettino e studioso di cose storico-liturgiche, preoccupato di elevare la propria santificazione personale, monaco di nascita e di elezione, ma figlio di uno straniero, visitatore apostolico dei seminari lombardi e quindi, per questa via conoscitore della Chiesa ambrosiana, è figura tale da puntare tutto sulla formazione del clero, considerando la cultura insomma nel senso più ampio di politica ecclesiale.

Per i biografi e per quanti se ne sono a diverso titolo occupati il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster non amava e non era adatto alla politica. Tutto il suo lungo tirocinio di abate benedettino lo rendeva estraneo ai maneggi e agli arcana imperii.

Egli stesso ne era così consapevole da premettere al volume edito nel 1946 dalla curia milanese su Gli ultimi tempi di un regime,19 una confessione addirittura disarmante: "Gran parte di questa eccezionale forma di attività pastorale per la salvezza del nostro popolo, si è svolta durante i ripetuti colloqui avuti nel semestre scorso con l'Ambasciatore Germanico, col Console Generale del Reich a Milano, colle Autorità Partigiane, col Maresciallo Graziani, e finalmente col Duce medesimo, la vigilia della sua caduta. Anche adesso mi manca però il tempo per poter stendere più diffusamente le mie memorie. L'Arcivescovo di Milano non può concedersi davvero il lusso di scrivere delle autobiografie!"

Nel momento in cui ne scrive l'Arcivescovo sembra prendere le distanze dalla materia, dai personaggi e finanche dal proprio ruolo. Non si confessa, pur usando il sermo humilis, né propone diagnosi interpretative. Come a codificare la distanza, assume il tono della scrittura diplomatica e non si astiene dallo scialo delle maiuscole.

Colloqui drammaticamente storici e prese di posizione gravide di conseguenze assumono nell'animo e poi nella scrittura di Schuster la forma e il senso – parole sue – di una "eccezionale forma di attività pastorale per la salvezza del nostro popolo". Quindi il ruolo di pastore d'anime non lo ha mai abbandonato, e da quel ruolo ritorna agli episodi come guardando e guardandosi da fuori, pur essendone stato o inevitabile protagonista o regista. Non certo un convitato di pietra.

Per cui non stupisce che la raccolta del testo si apra con un telegramma a monsignor Spellman, arcivescovo di Nuova York. Un testo da arcivescovo a arcivescovo, scritto in latino liturgico, col quale proponeva di risparmiare ai cittadini di Milano i bombardamenti delle fortezze volanti. Un telegramma che tuttavia non ricevette risposta.

L'associazionismo cattolico è in competizione inevitabile con quello mussoliniano, di volta in volta guidato dai Farinacci e dagli Starace, anche perché non è mai venuta meno la scelta del primato educativo in un mondo cattolico che come tale non poté mai risultare spalancato all'egemonia del fascismo. Ed è solo tenendo conto di come Schuster concepiva il proprio profilo da una parte, e di come dall'altra la questione del consenso fosse importante per un regime che faceva dell'indottrinamento e della propaganda in tutti i settori – compreso quello operaio con i dopolavoro – un punto irrinunciabile della propria prospettiva, che è possibile approcciare la personalità di questo grande cardinale nella scia di predecessori altrettanto importanti.

Schuster è uno dei volti durevolmente storici della terra ambrosiana. Si inserisce con un posto di assoluto rilievo nella sequenza dei vescovi così come la presenta Giorgio Rumi quando scrive: "Quanto meno, il pastorale e lo staffile impugnati da Ambrogio evocano una duplicità di funzioni, che talora convivono, talora si succedono: Carlo e Federico; l’arcade Pozzobonelli ed il severo Gaysruck, erede della migliore tradizione teresiana e giuseppina; Ballerini, impedito e perseguitato, e Calabiana, senatore del Regno e non mai cardinale; Ferrari, discusso e amato, e Schuster, il benedettino nella tempesta della dittatura e della guerra fascista".20

Schuster non è quello della satira anticlericale che benedice i gagliardetti e tuona contro il rossetto femminile. Quel che infatti l'opinione pubblica s'è persa di Schuster è il mix incredibile di pietà e spiritualismo benedettino e di frenetica attività, che nulla ha da invidiare alla frenesia e al sogno del fordismo: si tratta tra l'altro di un qualificato studioso del Borromeo, col quale pare addirittura entrare in emulazione. Come scrisse di lui il futuro papa Roncalli: "Ha superato in attività Carlo Borromeo".

La gracilità della persona celava un vigore e una determinazione insospettati: in grado di concorrere con la spinta attivistica della dittatura.

Il rapporto con il regime, anche quando appare di prossimità, rivendica comunque sempre l'irriducibilità cristiana in termini esplicitamente drastici. Ricordò il cardinale a dei giovani cresimandi: "Vi volevano figli della lupa, ma voi dovete essere forti e veri figli di Dio". Allora Farinacci può scrivere a sua volta: "Il cardinale Schuster non capisce niente di politica".21 (Un ritornello apparentemente ineliminabile. )

Schuster in ogni caso non si tira indietro e apre i locali della curia alle trattative fra gli esponenti delle fazioni in lotta così come ai pacchi dei viveri destinati alle popolazioni indigenti. Ha espressioni accorate per le incursione aeree che desertificano le case e il suo giudizio rispetto agli avvenimenti emerge senza mezze misure o zone d'ombra:"Si direbbe l'ora di Barabba!".22

Eppure – non è un paradosso – il punto di vista di Schuster, proprio perché sicuramente lontano dalla politica politicante, al punto da rischiare di esserne strumentalizzato per eccesso di ingenuità e schematismo, risulta alla fine utilissimo a una comprensione né ideologica né ingenua della fase finale del fascismo e della vittoria della Lotta di Liberazione.

Secondo Angelo Majo, il Cardinale mutua dal suo ordine religioso e dalla secolare tradizione benedettina una visione per la quale la società risulta una grande famiglia che si compiaceva di contemplare unita e in festa. Un punto di vista che deduce "da quel suo favorire manifestazioni religiose popolari – ricordiamo tra le più imponenti di quegli anni: il Congresso Eucaristico diocesano di Monza (19-23 settembre 1945), il Congresso Mariano diocesano di Busto Arsizio (14-18 maggio 1947), le manifestazioni in onore della Madonna Pellegrina (maggio 1949) – alle quale interveniva sempre con una parola che voleva essere di richiamo e di stimolo ad una fede operosa. Si sentiva padre di tutti".23

E indubbiamente il favore per le manifestazioni popolari segnala il carattere essenzialmente pastorale della sua interpretazione episcopale, cui corrisponde un bisogno diffuso non soltanto tra i fedeli in generale, ma tra la gente in generale. Un bisogno di risentirsi popolo dopo l'insistenza e addirittura l'ossessione delle liturgie del regime.

In tutto ciò si segnala l'instancabile carisma di Ildefonso Schuster. Colgo l'occasione a questo punto per riferire un aneddoto narratomi da uno dei due protagonisti.

Poco prima della scomparsa di Giuseppe Lazzati – il costituente dossettiano divenuto in seguito rettore dell'Università Cattolica di Milano – ci fu un colloquio fra il cardinale Martini e il Lazzati medesimo in cui il tema della conversazione fu l'iter verso la canonizzazione di Schuster. E quando Lazzati osservò che l'arcivescovo elveto-romano "non si intendeva di politica", si sentì rispondere da Martini: "Ma può un vescovo non intendersi di politica"?

L'onestà intellettuale di Martini, e quella che ho più volte definito la sua "scomodità", non cessano di stupire.

I giudizi convergono, pur tra loro differenziati. Simpaticamente ironico quello attribuito al cardinale Gerlier, con il quale l'Arcivescovo aveva una certa cordialità. Diceva di lui il presule francese: "E’ un mal vivente! (vive male). Non mangia, non dorme, lavora sempre"!

E comunque resta in tutti, ecclesiastici o meno, l'impressione quasi fisica di un uomo che viveva in contatto con Dio.

 Testimoni e maestri

Intorno alla Curia e alla Cattolica si muove una schiera di grandi testimoni e maestri. Impossibile sottovalutare il ruolo ricoperto da mons. Francesco Olgiati, amico e collaboratore di Gemelli e soprattutto mentore di generazioni di militanti cattolici ambrosiani.

Olgiati fu in effetti autore poligrafo e cercò di attuare quella definizione che egli stesso diede di sé: "Ad una obiezione scientifica si risponde colla scienza. Ad una obiezione filosofica colla filosofia. Ad una ridicolaggine non si può rispondere meglio che facendo ridere intorno alla sciocchezza udita". Nascono così a lato delle opere scientifiche e filosofiche di Olgiati i Sillabari e La posta di Gnao, Le lettere di don Micio; come esposizione elementare del cristianesimo i primi, come rubriche delle riviste della gioventù cattolica maschile e femminile le altre. Senza mai nascondere una vera passione per i felini e l'attitudine a porsi come maestro di pensiero delle nuove generazioni di militanti cattolici. E’ lo stesso Schuster a confessare di essersi servito in più occasioni della grande capacità organizzativa di monsignor Giuseppe Bicchierai, responsabile, a quei tempi, delle attività assistenziali e caritative diocesane. si impegna a sottrarre alla rappresaglia nazi-fascista detenuti politici, per ottenere la liberazione dal carcere di sacerdoti e laici o per aiutarli a fuggire. Un'intensa attività per assistere i deportati in campo di concentramento, gli ebrei, le famiglie disagiate. Con un impegno coordinato da altri sacerdoti milanesi quali don Aurelio Giussani, don Enrico Bigatti, don Natale Motta e don Andrea Ghetti, celebre esponente dello scoutismo ambrosiano delle Aquile Randage. Così come don Giovanni Barbareschi, ancora diacono, mandato dal Cardinale a benedire i caduti di piazzale Loreto.

Una intensa attività che va dall'interessamento per i prigionieri di guerra e gli internati, all'assistenza ai reduci e ai profughi, alla distribuzione di viveri e di indumenti a popolazioni prive di tutto, alle varie forme di sistemazione delle schiere di orfani e di mutilatini di guerra, dove si distingue l'opera di don Carlo Gnocchi, cappellano degli alpini in Russia e fondatore della Pro Juventute.

Non a caso l'arcivescovado, durante i lunghi anni di guerra, si trasformò in un ufficio di informazioni per i prigionieri e gli internati; nell'immediato dopoguerra in ufficio di assistenza per i rimpatriati indigenti di ogni condizione. Portici, sale, cortili divennero magazzini di generi alimentari, di medicinali e di vestiario.

In un'atmosfera di grande fervore e di apertura venivano a aggiornate e potenziate iniziative quali "Il pane di San Galdino" e la "Carità dell'Arcivescovo". Quest'ultima animata dall'ingegner Carlo Bianchi, collaboratore, insieme a Teresio Olivelli, alla redazione del foglio clandestino "Il Ribelle". Carlo Bianchi, coautore con l’Olivelli della preghiera "Ribelli per amore", verrà poi internato e trucidato a Fossoli dai nazisti.

Un'attività comunque a spettro larghissimo, che si confronta con i problemi inseguendone le emergenze. Tale è il dramma delle case distrutte dai bombardamenti. Angelo Majo può scrivere in proposito: "In zone periferiche della città la "Domus Ambrosiana" realizzò tre moderni quartieri costituiti da tredici fabbricati dove trovarono dignitosa sistemazione 239 nuclei familiari con affitti inferiori a quelli praticati dall'Istituto Autonomo Case Popolari".24 Schuster non dismette il piglio da abate anche per quel che riguarda la ricostruzione dell'associazionismo cattolico, ambito nel quale si mostra attivissimo. Particolare l'impulso dedicato alle Acli, che nella diocesi ebbero rapida e ampia diffusione. Personalità quali Alessandro Buttè, promotore a Montecitorio della prima inchiesta sul lavoro minorile, Gaetano Carcano, Edoardo Clerici, Luigi Clerici, Erasmo Peracchi e Virginio Pozzi diedero alla promozione della classe lavoratrice le loro migliori energie.

Getta un raggio di luce sulle motivazioni l'intervista concessa da Dossetti e Lazzati ad Elia e Scoppola nel novembre del 1984.

In particolare Giuseppe Dossetti si trova a rispondere alle domande dei più giovani amici circa il suo percorso spirituale, intellettuale e politico. Con una certa sorpresa degli interlocutori egli afferma di non aver avuto nella sua formazione conoscenza diretta di maestri italiani e stranieri cui il suo nome sarebbe successivamente stato accostato, in particolare Sturzo, Maritain e Mounier. E alla precisa richiesta di Scoppola dove avesse trovato le basi di un pensiero tanto originale nella vicenda del cattolicesimo italiano egli risponde con semplicità: “Dentro di me, nel mio cuore”.

 Epopea e quotidianità

 Pare utile richiamare a questo punto lo sforzo in atto di dar conto della complessità della Lotta di Resistenza, non tutta configurabile nell'epopea in montagna. Una lettura che ha maggiori possibilità di parlare a tutti perché va alla radice di una opposizione e di una lotta di popolo nella quale molteplici elementi della stessa quotidianità sono via via confluiti, non tutti catturabili dalle narrazioni ideologiche maggiori.

Né si tratta soltanto di render ragione di una vicenda complessa, bensì di renderla fruibile anche per le nuove generazioni. Se l'epopea si allontana, la quotidianità resta tra noi come tramite di comprensione e di empatia.

Anche uno storico notoriamente laico e di sinistra come Luigi Borgomaneri ha recentemente sentito il bisogno di rivisitare la Resistenza milanese, e attraverso una documentazione inedita e la testimonianza di Lamberto Caenazzo, allora giovanissimo partigiano del popolare quartiere del Giambellino, ha ricostruito la figura e le imprese di Carlo Travaglini, un maturo intellettuale di origine tedesca che, espulso dalla Germania negli anni Trenta, dopo essere stato rinchiuso in un Lager, si beffa per mesi di Wermacht e Gestapo grazie alla perfetta conoscenza della madrelingua tedesca. Riesce nel salvataggio dalla deportazione di centinaia tra operai, ebrei ed ex prigionieri di guerra alleati, finché, scoperto, decide di continuare la sua lotta contro il nazifascismo in una formazione partigiana nel Lecchese.

Ancora una volta nella corrispondenza di Ildefonso Schuster ci imbattiamo, lui malgrado, in un episodio dove la maturazione patriottica non ha trovato di meglio che la tonaca d'un prete. È la vicenda di don Riccardo Corti, parroco di Giovenzana, condannato a morte per favoreggiamento di alcuni prigionieri di guerra inglesi che il buon sacerdote aveva accolto nella canonica. Grazie all'intervento del suo cardinale don Corti vedrà la condanna a morte commutata. E Schuster annota che si tratta di un vecchio settantenne, gravemente malato, che l'organizzazione penitenziaria adibisce all'ufficio di garzone calzolaio…

La corrispondenza resa tempestivamente pubblica da Schuster consente anche di rilevare il disappunto del console germanico che lamenta il "comportamento di numerosi Ecclesiastici nei riguardi del ribellismo, condotta che dà a divedere un atteggiamento di aperta ostilità allo Stato da parte di certi Circoli del Clero italiano"...25

Altri reperti di questa quotidianità che lentamente matura il proprio antifascismo possono essere rinvenuti nel promemoria di un impiegato della Toscana ai suoi superiori della Montecatini a Milano.

Il promemoria è riportato dal Cardinale nel libro autobiografico, e dopo l'illustrazione dei disastri compiuti in Toscana dall'esercito tedesco in ritirata – "un gigantesco ferro da stiro sui nostri paesi e le nostre campagne" – esprime l'auspicio: "Voglia il cielo che all'Italia del Nord non capiti la sventura che ora tocca alla nostra terra, e che sia almeno possibile a Voi salvare nell'interesse supremo della Patria, il vostro ricco patrimonio industriale. Ma il corso degli avvenimenti potrebbe essere anche per voi avverso, ed allora, amici miei, vi esorto a pensarci sin d'ora: salvate macchinario, attrezzi, ecc.; nascondeteli, sotterrandoli. Usate la massima prudenza, perché vi sono molte spie che aiutano a ritrovare a suo tempo quanto è stato nascosto. Date meno dati tecnici che potete a chi ora ve li chiede. Nella fervida speranza di rivedere prima di morire un'Italia simile a quella della nostra giovinezza, rinnovo a te caro... ed agli altri colleghi le espressioni della mia affettuosità".26

E certamente il territorio e le vicende della diocesi più grande d'Europa non possono non costituire in tal senso un test probante sufficientemente esteso.

Si tratta di un approccio che appare il più adatto a dialogare con le nuove generazioni, per la semplice ragione che il vissuto quotidiano fa inevitabilmente parte delle loro esperienze. Un modo per ringiovanire la Lotta di Liberazione rivivendola.

Ne era consapevole David Maria Turoldo, frate servita e poeta che esordisce con i versi dedicati ai "giorni nel rischio" di una Milano sul finire del conflitto. Il suo magistero resistenziale si snoda infatti a un altissimo livello teatrale in "Salmodia della Speranza", ma anche il magistero colloquiale lo intriga e lo motiva.

E’ quella di Turoldo una vicenda che si radica e dipana nel centro di Milano, dove il gruppo dei resistenti si ritrova e si raccoglie intorno a "L'Uomo", giornale clandestino della Resistenza cattolica milanese redatto da Gustavo Bontadini, Dino Del Bo, Mario Apollonio, Angelo Romanò... e dai giovani monaci Camillo de Piaz e David Maria Turoldo. Né la circostanza deve stupire. Il Cln milanese fa le sue riunioni clandestine nella biblioteca dei Salesiani.

Ma inaspettatamente il Turoldo più compiuto sul tema della Resistenza è anche il più colloquiale. Lo ritroviamo infatti in una lunga conversazione con gli studenti dell'Istituto Tecnico Industriale "Benedetto Castelli" di Brescia il 31 maggio del 1985.27 Turoldo incalza una generazione "priva di memoria" e che "rischia di essere una generazione astorica", pur custodendo Brescia quella Piazza della Loggia ferita dalla strage neofascista, che non cessa di pesare sulla città.

Le confidenze di Turoldo agli studenti sono drammatiche: il lezzo dei cadaveri nelle narici per avere svuotato con le Commissioni pontificie di liberazione 29 campi di concentramento. "E mentre si camminava, con le scarpe si faceva uno scricchiolio"... Cinquantasette milioni di morti! "Sapete che dopo, per anni, io non riuscivo a salire su una Volkswagen, perché era una macchina tedesca"? Per questo confessa di non resistere all'impulso di andare nelle scuole, "perché sono i semenzai della coscienza".

 Due versanti

Ma è dalle periferie che giungono gli echi di originali voci profetiche. Mazzolari , dalla sua pieve sull'argine del Po, non manca di porre interrogativi inquietanti. Non manca di sollevare i primi dubbi su un vero tabù del tempo: " La nostra unità (di cattolici) ha delle cause consolanti, altre assai meno, e degli effetti che possono considerarsi provvidenziali ed altri che non lo sono affatto". 28

Qui giacciono le ragioni nelle motivazioni della denuncia fermissima del razzismo, che ritroviamo nella predica di Schuster del 13 novembre 1938 e susseguentemente il monito pressante a desistere dal proposito di entrare in una guerra che si prevedeva funesta.

Ovviamente una linea che procura sorpresa e irritazione negli uomini del regime e che si riflette nell'avvicendamento del direttore del quotidiano "l'Italia", e che lascia uno strascico di sorda ostilità nei gerarchi del fascismo, che andrà continuamente crescendo, così come si può rilevare nei rapporti della prefettura.

E’ questa quotidianità che la Chiesa ambrosiana si sforza di governare e trasformare in una drammatica transizione.

 La prospettiva

 La prospettiva riguarda la natura popolare del movimento cattolico milanese. Giocano un grande ruolo le periferie delle parrocchie e delle pievi dove il movimento cattolico si mischia e si distingue dal movimento antifascista all'interno di un dibattito costante che attraversa in particolare tutta la classe operaia.

In tal senso Sesto San Giovanni, la città del lavoro e la Stalingrado d'Italia alla periferia Nord di Milano, con la sua selva di ciminiere e con oltre 40.000 tute blu costituisce un test significativo. A partire dalla qualifica di Stalingrado.

Sovente la pubblicistica ha assimilato Sesto San Giovanni alla Reggello di Guareschi, e quindi alla saga bonaria di Don Camillo e Peppone, tradotti in immagine filmica con grande talento da Gino Cervi e Fernandel. Le cose non stanno così.

Sesto è Stalingrado perché nella città delle grandi fabbriche hanno luogo i primi scioperi nell'Europa schiacciata dai nazisti nella primavera del 1943. E siccome Stalingrado resisteva eroicamente all’armata di von Paulus, Sesto che scioperava contro i nazisti diventò nell'immaginario nazionale la Stalingrado d’Italia.

Per le mappe e per il catasto, la città presenta la maggior concentrazione industriale europea in rapporto alla superficie occupata. Mentre per il martirologio e la medaglia d'oro al valore della Resistenza ci sono i 553 lavoratori sestesi deportati nei Lager, di cui 215 non faranno più ritorno. I 334 partigiani uccisi. Ogni anno parte da Sesto per recarsi in pellegrinaggio ai campi di sterminio la delegazione più folta del mondo.

Nella mia città "la morte era la moneta di scambio tra le due parti".

Anche qui la quotidianità e le narrazioni ideologiche si meticciano e si confrontano e producono testimonianze in grado di assumere – per tutte le componenti – un significato emblematico. Quindi un caso di studio non fine a se stesso.

Mariuccia Mandelli è una dattilografa particolare, un profilo emblematico. Scrive nell'autobiografia consegnata ai nipoti pro manuscripto: "Poco dopo la morte di nonna Teresa lasciamo Sesto San Giovanni per stabilirci a Concorezzo, presso i signori Mariani della cascina San Lazaro… Papà e io andiamo avanti e indietro ogni giorno in bicicletta". Sfollati. E sul fenomeno credo sarebbe il caso di insistere perché i déplacés si sono riprodotti nei conflitti recenti, dalla Siria, ai Paesi africani in guerra, al Sudamerica.

Scrive la Mandelli:"La mattina si ripartiva in bicicletta e appena arrivati a Sesto papà comprava il giornale per sapere cosa era successo. Milano avrà due case su tre cadute sotto le bombe degli alleati che miravano i punti dove c'erano i comandi tedeschi. […] Dopo la liberazione io vivevo poco in casa. Ero stata coinvolta nella Resistenza sia sul posto di lavoro alla Magneti Marelli che in parrocchia. Negli ultimi mesi del 1944 ero stata trasferita alla Direzione del personale della Magneti Marelli. Erano mesi difficili perché gli scioperi negli stabilimenti davano filo da torcere ai responsabili politici. Più di una volta il direttore fu convocato all'Hotel Regina di Milano, sede del comando tedesco. […] Il sindacato unito sceglie i suoi rappresentanti e la corrente cattolica presenta donne nelle liste. Tra queste ci sono anch'io. Faccio parte, prima del consiglio provinciale della Fiom e poi di quello nazionale. Visito la Fiat di Torino, la Ansaldo di Genova, altri stabilimenti a Milano a Firenze, dove si tengono convegni e congressi. Vado anche a Roma per la prima trattativa del contratto di lavoro. Chiedo la stessa paga per lo stesso lavoro fatto dalle donne, che invece sono pagate la metà degli uomini".

C'è per Mariuccia Mandelli il rischio e la prospettiva di una carriera sindacale ed anche politica. Alberganti, di cui è la pupilla, si è informato durante il congresso nazionale della Fiom a Firenze sulla sua età in rapporto a un possibile mandato parlamentare. Per questo la sua scelta sorprende tutti, perché la giovane sestese imbocca una terza via francamente imprevista e piuttosto radicale: entra come monaca di clausura nel monastero di Santa Coletta delle Clarisse francesi in Assisi. Dove è spirata un anno fa.

 

Prof. Giovanni Scirocco, dell’Università di Milano - “Le forze di sinistra”.

 Innanzitutto mi perdonerete se la mia non sarà una relazione così analitica come le belle e ricche relazioni che la hanno preceduta.

Ho preferito scegliere, nel tentativo di dare una brevissima linea interpretativa del tema che mi è stato affidato anche perchè non è facile illustrare in pochi minuti un tema così vasto su cui esiste una storiografia amplissima ma sul quale paradossalmente per certi versi continuiamo a sapere poco o almeno sappiamo poco, di quelle tante vite e di quei tanti uomini e donne che fecero la Resistenza.

Sappiamo molto ovviamente di Longo, di Amendola, di Secchia, di Lombardi, di Pertini, di Parri e di Valiani.

Anche qui le prime biografie scientifiche su questi personaggi così importanti sono di questi ultimi anni se non di questi ultimi mesi così come ad esempio la storia di un fenomeno importante come quello dei GAP.

Sappiamo molto degli scioperi del '43 e del '44, sappiamo molto dell'insurrezione del 25 Aprile ma sappiamo poco o nulla tranne qualche episodio particolare delle quasi 200 stragi nazi – fasciste compiute solo a Milano e provincia durante la Repubblica Sociale Italiana.

Poco e nulla sappiamo di chi è morto, della loro vita delle loro motivazioni, dei loro ideali e delle loro scelte.

Noi storici per quel poco che possiamo fare stiamo tentando di ovviare a queste mancanze; vorrei soltanto citarvi, visto che si è parlato della Casa della Memoria e delle varie Associazioni che vi entreranno dal 25 Aprile, di due progetti che stiamo portando avanti come Istituto Nazionale del movimento di Liberazione in Italia.

Uno è per l'appunto il data – base sulle stragi nazi – fasciste in Italia, un progetto molto ampio condotto anche con l'Anpi che, grazie al contributo della ambasciata tedesca in Italia, sta portando dei risultati sorprendenti. Quando mi sono occupato delle stragi nazi – fasciste nella provincia di Milano e Provincia sono partito da 40 episodi e siamo arrivati quasi a 200 e questo già vi dice del poco che sappiamo e, visto che siamo a Palazzo Marino, l’obbiettivo che ci poniamo è quello di partire insieme agli altri Archivi e dai ricchissimi archivi dell'Istituto nazionale per la Liberazione e per la Resistenza in Itali per costituire alla Casa della Memoria un fondo dei Sindaci di Milano

Abbiamo recuperato l'annuncio in questa sede e poi verrà divulgata la notizia nelle prossime settimane; abbiamo recuperato l'archivio Filippetti, l'ultimo sindaco della Milano democratica prima del fascismo; con lui l'archivio ricchissimo del sindaco della Liberazione Antonio Greppi e della brigata partigiana dedicata a suo figlio Mariolino e del fondo che è stato praticamente tutto digitalizzato e sarà messo a disposizione non solo degli studiosi e di tutta la cittadinanza. E’ stato recuperato infine il fondo di Gino Cassinis, rettore del Politecnico durante la Repubblica Sociale Italiana e in questo fondo vi sono anche le sue preziose agende di lavoro e di vita di quei mesi.

In questa sede mi piacerebbe lanciare un'idea che in altre città è stata portata avanti con grande successo: il tentativo di legare a questa storia così importante per la cittadinanza e per le giovani generazioni. Mi piacerebbe che a Milano si avviasse quel processo, importante anche nelle altre città d'Europa, delle pietre di inciampo. E’ un'iniziativa di grande risalto e sarebbe bello che questa città cominci a pensarci. Tornando al tema che mi è stato affidato direi che per tutte queste donne e questi uomini della Resistenza possono valere a mio avviso le parole di Vittorio Foa in un bellissimo passaggio della sua auto – biografia “Il cavallo e la Torre” dove scrive della Resistenza come il punto alto della sua esistenza. Cito Foa non a caso perchè come molti uomini del Partito d'Azione, che a mio parere fanno parte a pieno titolo della storia delle sinistre e penso a Parri, a Spinelli a Lombardi, hanno attraversato la storia della sinistra italiana rappresentandone le varie istanze. Ve ne leggo solo poche righe dove parla del suo punto alto della sua esistenza fra l'Autunno del '43 e l'estate del '44.

Scrive Foa: “A Torino e poi a Milano mi pare di avere passato una passione politica molto forte. Per me personalmente la Resistenza non è stata solo una passione, essa mi ha insegnato cose che mi sono durate; la prima è quella del governo dal basso che si confronta e si intreccia con quello centrale dall'alto in una visione integrata e integrale della democrazia. La seconda è del carattere politico della guerra di popolo e quindi anche del carattere politico delle lotte del lavoro.

Il Governo di Roma con il sostegno degli alleati, il cui apporto era ovviamente indispensabile, aveva già ripreso in parte il controllo della situazione ma quella linea di un contro – governo dal basso e dalla periferia come struttura istituzionale, come elemento di democrazia diretta che non doveva sostituire ma che doveva integrare quella rappresentativa, mi era entrata profondamente nella testa.

Direi che da questo punto di vista valgono ancora una volta le distinzioni e le analisi che sono state più volte citate oggi di Claudio Pavone sulle triplici motivazioni che spinsero fra la scelta della Resistenza e della lotta armata dopo l'8 settembre tralasciando la categoria più discussa, quella della guerra civile che indubbiamente fu metabolizzata per prima proprio dagli uomini dell'azionismo, penso a un Venturi ma penso anche sotto il profilo letterario a Meneghello che ne parla esplicitamente nel '64 lasciando da parte la discussione la categoria della guerra civile che i socialisti ed i comunisti condussero nelle diverse soggettività e con diverse sfumature e inclinazioni in una guerra di liberazione nazionale e in una guerra di classe.

Non a caso Sandro Pertini, quando il 28 giugno 1960 a Genova nel comizio di protesta sulla convocazione del Convegno del movimento sociale italiano a Genova città medaglia d'oro della Resistenza, parlò esplicitamente rifacendosi all'esperienza di quindici anni prima parlò apertamente di libertà, giustizia sociale e di amor di Patria. Motivazioni che a mio parere sono fondamentali nelle scelte dopo l'8 settembre.

Il tema della scelta è proprio il tema centrale nelle motivazioni essenziali del libro di Pavone che ha come sottotitolo “Saggio sulla moralità della Resistenza”. Convinzione quindi di battersi per questi valori, libertà, giustizia sociale, amor di Patria ma anche per un cambiamento profondo quel vento del Nord di Nenni che però cessò ben presto di soffiare come sappiamo descritto nel bellissimo libro di Carlo Levi che è stato descritto come il libro della fine dell' azionismo e direi più in generale della fine della Resistenza.

A questo si aggiunge un ulteriore elemento quali il senso di profondo del tentativo di rottura con l'Italia pre–fascista come scriveva Riccardo Lombardi nell'edizione dell'Italia libera del 24 aprile 1945, 10 giorni prima di entrare in Corso Monforte come Prefetto della Liberazione. Il fascismo non fu già un incidente sgradevole che ha interrotto la continuità istituzionale dello Stato ma fu invece in larga misura la degenerazione dello Stato, democratico di nome ma autoritario, centralizzatore prefettizio, burocratico e classista di fatto,

Il settembre 1943 non ha segnato solo la decomposizione dello Stato fascista ma anche dello Stato pre – fascista.

Come sempre in queste occasioni si è espresso anche Sergio Fogagnolo, il figlio di uno delle 15 vittime di quello che è stato l'episodio più tragico della Resistenza a Milano cioè della strage di Piazzale Loreto.

Ora, se noi andiamo a vedere le biografie dei martiri di Piazzale Loreto, ritroviamo questa unità della Resistenza e questi valori. A Piazzale Loreto c'erano comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, commercianti, tecnici, impiegati, operai, insegnanti e un poliziotto. Direi che la Resistenza a Milano è stata per certi versi soprattutto questo.

Vorrei concludere parlandovi di un personaggio poco conosciuto dalla Resistenza milanese che abitava in Corso Plebiscito dove c'è una lapide di cui non ero a conoscenza fino l'anno scorso quando abbiamo presentato il libro curato da suo figlio Guido che raccoglie le lettere di Andrea Lorenzetti: “Lettere da San Vittore”.

Il tema di questo libro è un interrogativo ed è una domanda; Andrea Donizetti era un giovane di 36 anni, un affermato professionista con una bella famiglia e un figlio piccolo, appunto Guido, di cui si preoccuperà costantemente nei lunghi mesi di prigionia. E perchè un uomo giovane, affermato, ricco, con una bella famiglia sceglie in un certo momento di mettere tutto a rischio, a partire dalla propria vita? La risposta la troviamo nella lettera inviata da Andrea il 26 marzo 1944 alla madre dal carcere di San Vittore dove scrive: “Ci sono momenti nella vita nei quali dentro di noi la coscienza chiama e dice questo è il tuo dovere e non ci si può sottrarre senza perdere la stima di noi stessi”.

Sono parole che ricordano quelle di una grande filosofa ungherese che scrisse: “Gli uomini e le donne della modernità sono tutti di fronte allo stesso problema, o scelgono se stessi o lasciano che gli altri scelgano per loro” e in quel mese del '43 questa scelta si presentò con tutta evidenza a quelle donne e a quegli uomini. Andrea Lorenzetti era stato educato agli ideali del Risorgimento e del socialismo umanitario dal padre Raffaele morto nel 1934 la cui memoria riappare spesso in queste lettere; divenne resistente quasi casualmente, ma meritandosi la stima e la fiducia dei compagni per il suo coraggio, l'ottimismo e per le sue straordinarie doti organizzative, eppure emergono in questo carteggio anche da recluso la rete di assistenza per i compagni e per le loro famiglie.

Era divenuto uno dei leader del Partito Socialista clandestino a Milano avendo assunto nel dicembre '43, dopo gli arresti di Viandriani e dopo l'espatrio di Domenico Viotto e di Roberto Veratti, la responsabilità della Segreteria Provinciale affiancato da Ottavio Pieraccini e da Marcello Cirenei, che poi divenne segretario del Partito per Italia. In tale veste organizzò, dopo una consultazione tra i militanti, gli scioperi di marzo del 1944 contribuì alla divulgazione dell'Avanti clandestino e, secondo Emanuele Tortoreto che fu assessore al Comune di Milano e uno dei pochi storici della Resistenza milanese, Doninzetti fu incaricato di rendere noto lo sciopero del '44 attraverso dei radio messaggi.

Questo libro oltre ad offrirci un'altissima testimonianza morale ci da anche una descrizione attenta della vita del carcere di San Vittore che è un altro di quei luoghi centrali nella storia della Resistenza a Milano. Di quel carcere di cui scrive: “dicono che è necessario soffrire anche il carcere per diventare uomini avrei fatto a meno di questa prova, ma della verità c'è, in carcere si è proprio soli davanti a se stessi e ci si misura, così pure come a Fossoli dove fu portato dopo San Vittore; la vita che conduciamo non può dirsi comoda ma nel complesso è interessante e per chi come me vive una vita interiore, o perlomeno lo crede, è un campo di vaste esperienze”. L'esperienza di Fossoli servì anche a rafforzare le sue convinzioni socialiste, non solo nell'opposizione al nazi – fascismo, ma nell'osservazione di una realtà sociale diversa dalla propria quando incontrò nel campo di Fossoli un gruppo di sottoproletari romani e non potè non constatare l'utopia, sono sue parole, che il rinnovamento morale non doveva precedere quello materiale e doveva andare insieme con esso.

Direi che è proprio questo il lascito, il contributo principale della sinistra di Milano alla Resistenza. Il tentativo di unire rinnovamento morale e rinnovamento materiale e di questo lascito a 70 anni da quegli eventi credo che possiamo continuare ad essere fieri. Soprattutto ognuno per la propria parte e direi che dobbiamo continuare ad esserne degni. Il 20 luglio 1944 dopo la strage di Fossoli in cui persero la vita 60 persone fra cui Leopoldo Gasparotto, Lorenzetti fu portato prima in un campo di concentramento a Bolzano e poi inviato a Mauthausen dove non tornò più poiché il 15 maggio 1944 moriva in quel campo di concentramento

Prima di partire per la sua destinazione finale il 20 luglio ci ha lasciato la sua ultima lettera in cui scrive: “se non tornassi voi sapete che ho seguito sempre la voce della coscienza e che non ho niente da rimproverarmi e che Guido mio, potrà camminare sempre a testa alta”.

 

Prof. Alberto De Bernardi, della Università di Bologna - “Il comando militare e politico della Resistenza”.

 A Milano scrive Giovanni Guareschi, l'inventore di una famosa coppia di oppositori nell'Italia dell'immediato dopoguerra, son successe cose enormi. Scriveva sul Candido nel '48: “appena uno entra in città gli viene il fatto di pensare che è tutta una nuova vita ma è una vita cominciata proprio nello stesso lugubre Piazzale dove la vecchia vita era terminata. Si intravede nel cielo di Milano dopo il fumo delle ciminiere di Sesto San Giovanni e la città è come se avesse al fianco un vulcano. La gente guarda il fumo e pensa che improvvisamente potrebbe diventare fiamma e lava ed è come una minaccia che pesa sulla città e quando sente rombare un autocarro molti pensano: eccoli. Il primo camion di operai di Sesto lo vidi il 26 luglio del '43. Erano tutti in tuta in piedi a braccia conserte in mezzo a loro c'era una ragazzona vestita davanti di rosso e dietro di tricolore con una corona di carta in testa e significava l'Italia proletaria difesa dai lavoratori ed era una cosa serena sul volto degli operai non c'erano piaghe e pieghe amare. Poi la guerra civile alienò, avvelenò il sangue alla gente ed anche a rimettere tutte le pietre come erano prima, la città non è più quella”.

Come è detto questo è un ritratto che ne fa Guareschi sul “Candido” uno dei temi dei giornali della destra nell'immediato dopoguerra e Guareschi è uno degli intellettuali che a quella destra, che poi si sarebbe chiamata anche anti – fascista, aveva dato un grande contributo anche popolare essendo appunto uno scrittore che aveva avuto molti lettori anche tra l'opinione pubblica ed i cittadini perchè era uno scrittore facile, di massa.

Bene questo è un bel ritratto di Milano nonostante tutto, l' idea che Milano è un vulcano, un vulcano che ha dentro la sua forza ribollente e questa è il mondo del lavoro, la classe operaia, i lavoratori.

Possiamo dire che il CLN e poi il CLN Alta Italia si propose di governare il “vulcano” e non solo di governarlo ma anche di alimentarlo. Bisognava alimentare il vulcano per fare sì che questa forza concentrata nelle sue grandi fabbriche diventasse la forza centrale per abbattere il fascismo e dall'altro canto bisognava governarlo impedendo che diventasse un magma indistinto e incontrollabile. Le forze che conducono la Resistenza, con solo un comando politico – militare, mentre cercano di abbattere il fascismo, al tempo stesso si pongono il problema del dopo. Allora come costruire il dopo, mentre lo si stava in qualche modo determinando? Come voi sapete il CLN viene fondato all'indomani infuocato dell' 8 settembre 1943 subito dopo l'armistizio e quando l' Italia cessa di essere diciamo una potenza belligerante, come era stata fino allora, e diventa il teatro di una guerra fra eserciti stranieri edil teatro di una guerra di Resistenza condotta non solo contro l'occupante ma contro altri italiani, quelli della Repubblica sociale italiana, con la loro amplissima gamma, di corpi d' arme, di bande armate, di strumenti di violenza. L'Italia cessa di essere una nazione perchè, come ha ricordato prima Pepe, si sfalda in pezzi differenti che rispondono a Governi diversi. Subito dopo l'8 settembre nasce la Repubblica di Salò, nasce il Governo del Sud ed un pezzo dell'Italia diventa parte integrante del Reich tedesco.

Milano però non è soltanto questo vulcano è anche una città distrutta perchè fin dall'ottobre del '42 aveva dovuto subire i primi grandi bombardamenti.

Probabilmente Milano non è come Napoli, che è la città più bombardata d'Italia (anche se nessuna città italiana può essere paragonata a Dresda o a Londra, ovvero le grandi città che hanno subito grandi distruzioni dai bombardamenti) ma è sicuramente una delle città più bombardate di Italia per una ragione ovvia, perchè quel vulcano politico e sociale di cui abbiamo parlato stava dentro i luoghi produttivi che alimentavano la guerra fascista.

Al primo dei bombardamenti quello del 24 ottobre ne seguì un altro nel febbraio del '43 che ebbe esiti ancora più dolorosi con centinaia di morti e decine migliaia di case distrutte. Poi ne seguì un altro ancor più terribile che si durò per tutto l'agosto del '43 con bombardamenti che andarono dal 7 fino al 16 agosto producendo migliaia di morti, quasi 13000 case distrutte e 250000 di senzatetto. Quindi quel vulcano che entra nella città come diceva Guareschi, glorioso e vestito con la bandiera d'Italia, è parte integrante di una città distrutta.

In questa città non dobbiamo dimenticare che comincia a scarseggiare il cibo. I razionamenti e la tessera danno sempre meno e la borsa nera comincia a incrementare il mercato criminale del cibo. Per comprare 1 kg di burro, un litro di olio ci vogliono l'equivalente di dieci mesi di stipendio di un lavoratore. E' una città affamata oltre che distrutta. Affamata nel senso vero del termine perchè le inchieste che vengono fatte in quel tempo ci raccontano che la dieta, la quantità di calorie che consumavano i milanesi, a cui potevano attingere i milanesi in quel periodo, cominciavano ad avvicinarsi pericolosamente alle 2000 calorie ed alla fine della guerra, nella primavera del '45, erano diventate 1700 medie.

Siccome, come vedremo tra poco, Milano non era una città solo distrutta ma era una città dove esistevano molte ricchezze diffuse, voleva dire che c'era una parte della popolazione che stava ben al di sotto di 1700 calorie perchè come voi sapete la statistica è la famosa scienza per cui se uno mangia un pollo e l'altro niente ne mangiano mezzo per uno. Da questo punto di vista capite bene che la situazione era davvero drammatica.

In questa situazione già nell'agosto del '43, comincia ad operare il CLN Lombardo; non era il primo di quelli che si erano formati ma era uno dei primi organismi interpartitici in Italia prima dell'8 settembre e dopo la caduta del fascismo.

Questo CLN ha tutti i caratteri che poi gli sono stati attribuiti dalla storiografia: essere un Governo di guerra, cioè il tentativo consapevole delle forze politiche al Nord, che stavano entrando in un rapporto complesso anche con il Governo del Sud, di guidare, dirigere e alimentare una guerra di Resistenza. Di una lotta di Resistenza quindi specialmente nell'agosto del '43 non c'era traccia ne a Milano ne in nessuna parte di Italia se si esclude, forse, qualche montagna. Questa operazione segnala che a Milano erano già attivi i Partiti, c'erano cioè nuclei di Partiti politici che si erano venuti ricostituendo.

Ovviamente noi qui non abbiamo tempo per discutere di come è lunga o breve, tortuosa e accidentata la filiera che conduce alla formazione di questi Partiti con il fuoriscitismo degli anni '20 e '30. Io sono propenso a credere che dentro questo fuoriscitismo ci sia stato come all'inizio della guerra una sostanziale frattura e che quindi le linee di continuità fossero molto inferiori alle linee di discontinuità. I Partiti che si formano sono Partiti che nascono in un contesto di guerra e di cesura e di frattura rispetto ad una tradizione che era stata completamente “prosciugata” dal Patto Ribbentrop – Molotov che aveva rotto l'unità di azione di tutti i Partiti Comunisti e i movimenti comunisti con il resto delle forze antifasciste e dal fatto che la guerra diventa un fatto nazionale e che quindi tutti i movimenti sovranazionali come era l'antifascismo sono messi in difficoltà da questi processi. La Francia sceglie la via dell'esercito in armi dietro De Gaulle, altri popoli fanno altre esperienze, le Resistenze cominciano a nascere con tutte le loro particolarità. In Italia la situazione è molto complicata perchè non si forma nessuna Brigata Italica con l'esercito anglo – americano e non si forma neanche un esercito di massa come in Jugoslavia.

Diciamo quindi che la situazione è molto complessa in quell'estate del '43 quando il CLN lombardo comincia ad operare in un territorio molto più ampio della Lombardia, come ci ha raccontato in virtù dei suoi studi Gaetano Grassi che si occupò di questo aspetto. Il CLN Lombardo era arrivato a governare territori che si avvicinavano alla Toscana: era quindi già un organismo sovra nazionale che lancia la prospettiva dell'insurrezione convinto che la liberazione sarebbe venuta presto. Poi purtroppo i tedeschi costringono sulla linea gotica la risalita degli Alleati e la situazione si complica in maniera spaventosa.

Nel febbraio del '44 viene fondato l'organismo più generale il Comitato di Liberazione dell'Alta Italia.

Questo CLNAI è qualcosa di diverso del CLN Lombardo perchè formalmente è il Governo straordinario del Nord è cioè un organismo di Governo legittimato dal Governo dell'Italia Sabauda. Era il rappresentante nelle terre occupate del Governo Democratico, quindi il CLNAI non è solo un organismo politico – militare che organizza la Resistenza, cosa che tra l'altro riesce a fare sempre in maniera molto contraddittoria dato che le bande vanno per conto loro. I Partiti hanno ognuno una loro organizzazione all'interno del sistema della Resistenza per cui diciamo il controllo fino a quando Parri non assumerà l'organizzazione militare delle Resistenza sarà molto difficile. Quello che però è interessante qui notare è che appunto stiamo parlando del Governo del Nord.

Un organismo che governa il Nord. Che cosa deve fare questo Governo del Nord?

Deve dirigere la partecipazione popolare alla lotta di Liberazione in funzione dell'obiettivo finale, l'insurrezione nazionale e deve anche costruire gli strumenti politico amministrativi che avrebbero dovuto entrare in funzione immediatamente all'atto della Liberazione che non si sapeva quando sarebbe avvenuta ma si pensava che sarebbe avvenuta presto, loro pensavano addirittura nel'44 (poi non sarebbe successo così).

Tutti gli organismi, gli strumenti e le Istituzioni di Governo devono essere in grado di prendere il controllo della città e di governarla prima che le forze armate anglo - americane e gli Alleati prendessero il controllo militare della città.

Costruire un Governo pronto per la Costituente pronto per gestire Milano e l'Alta Italia all'indomani della Liberazione.

Questo è molto importante perchè come voi sapete questo Governo era un Governo rappresentativo dei Partiti ed erano presenti figure che avrebbero avuto poi un ruolo nazionale da Dozza a Sereni, a Longo, e poi Parri, Valiani, Lombardi, Pertini, Morandi, Marazzi, Casagrande, Jacini e ne scordo molti altri. Tutti uomini e partiti che avranno nella storia della Repubblica un ruolo ben oltre quello cittadino, saranno classe dirigente nazionale.

Parri diventerà Presidente del Consiglio del primo Governo dopo la Liberazione.

Il Presidente era Pizzoni una figura di grande rilievo che è stata per fortuna recentemente riscoperta dalla storiografia. Tra l'altro c'era anche Falc come responsabile del Comitato finanziario perchè il CLN si divide in un Comitato militare che viene diretto da Parri ed un Comitato finanziario che viene diretto da Falc.

Mi interessa notare sono due cose.

Uno: l'intensa attività amministrativa che fa il CNAIL costruendo le strutture del decentramento cittadino, quel potere dal basso che cerca di tradurre la struttura militare Resistenziale nella vita civile.

Due: la creazione di strumenti di controllo delle attività amministrative e politiche della trasparenza dell'amministrazione.

Il CNAIL si dota immediatamente di uno strumento che è una commissione economica che avrebbe dovuto stilare in qualche modo una visione dell'economia. E' interessante notare come in questa commissione economica, che era presieduta da Merzagora, si apra un dibattito di grandissimo interesse che avrà poi un peso enorme della storia della Repubblica soprattutto della ricostruzione. Da un lato cosa significa il ritorno al libero mercato dopo il protezionismo recependo un'idea che aveva guidato tra l'altro quei pochi gruppi antifascisti che erano presenti all'interno della borghesia industriale italiana. Non dimentichiamoci che allora Merzagora era il Direttore della Pirelli quindi era un manager di una delle più grandi imprese italiane tra l'altro dove era attivissima l'attività partigiana. Era una delle grandi fabbriche del vulcano per intenderci.

Inoltre, la stessa Commissione affida ad un gruppo di persone, tra cui Saraceno, l'idea di fare un piano di sviluppo.

Quindi l'idea di mettere insieme Piano e ritorno al libero mercato, controllo e libertà economica sono anche due grandi temi che vengono discussi e che poi saranno alla guida della ricostruzione nel momento in cui lo Stato decide di non smantellare l'Iri e tutta il grande sistema dell'industria pubblica; anzi ne inventa un altro l'ENI e nel contempo però entrando nel nuovo sistema economico di Breton Wood attiva tutti i circuiti del Liberismo economico compone questa complessa e difficile costruzione tra uno Stato che dirige e che orienta l'economia e uno Stato che garantisce la libertà di mercato.

Il vulcano era però contraddittorio e non era così semplice da gestire perchè nel marzo del '44, nel momento in cui si sta delineando una seconda ondata di scioperi, il Capo della Provincia di Milano Piero Guarini lancia il famoso prestito della cittadinanza per sostenere la guerra fascista.

Questo prestito ha uno straordinario successo, viene sottoscritto da un quantitativo non piccolo di cittadini, non solo milionari ma anche da una parte di quella classe media che non sapeva come mettersi d'accordo con il vulcano, se entrare nel vulcano scappando dalla lava che li avrebbe travolti. Un miliardo viene raccolto per la città di Milano per proseguire la guerra fascista; tra l'altro il CLN Altra Italia come atto immediato di fronte al prestito Parini dice: “Scordatevi che noi ve lo ridaremmo dopo la Liberazione. Purtroppo non fu così perchè il Sindaco Greppi lo restituì.

Lo restituì per una ragione molto semplice perchè gli aderenti erano tantissimi milanesi e quindi non si poteva non restituire il prestito Parini perchè appunto non si trattava di dare i soldi ai miliardari si trattava di restituire i soldi a tanta povera gente. Quindi è chiaro che in questa città c'è il vulcano ma all'interno di una situazione molto complessa come dimostra il prestito Parini; questa complessità fece dire a un suo grande studioso ed analista, che scrisse uno dei più bei libri sulla Resistenza, Giorgio Bocca, che Milano era una città ambigua.

Riflettendo proprio su questo tema l'ambiguità di questa città emerge anche da un dato interessante: mentre c'era la Resistenza e si lottava accanitamente in tutti i quartieri e si moriva, a Milano il 16 gennaio del 1944, al Teatro Lirico si svolse l'ultimo grande comizio pubblico di Mussolini e nonostante fossero ovvi i richiami retorici della stampa di allora e di osanna nei confronti del Duce, un dato però non sfuggì anche agli uomini del CLN Alta Italia: esisteva un pezzo della città, come faceva notare Guareschi, che non aveva ancora scelto da che parte stare e molti non scelsero mai fino ai giorni della Liberazione.

Governare questa città dal punto di vista del Cnail era anche confrontarsi non solo con il vulcano, con la potenza rivoluzionaria trasformatrice che proveniva dai luoghi di lavoro, dai giovani intellettuali ma anche pensare l'Italia del dopo. La Milano del prestito Parini conviveva con quella del prestito Vulcano e questa convivenza sarà il nodo del Governo di questa città e dell'Italia nell'immediato dopoguerra.

Un ultima considerazione. Questa Milano era stata negli anni '30 effervescente centro culturale, c'era soprattutto una leva di giovani intellettuali che erano cresciuti nel Guf in quelle pieghe dell' azionismo fascista che molti sanno fu una grande scuola di giovani scrittori, di giovani intellettuali che avrebbero avuto un ruolo primario nel dopoguerra.

Bene il Cnai non intercetta questo mondo che solo in parte fa la Resistenza che solo in parte partecipa avendo scelto ma che poi si troverà ad avere un ruolo nella Milano della ricostruzione dando a questa città leve di intellettuali il primo dei quali è Vittorini che aveva imparato a diventare uno scrittore dentro l'Associazionismo fascista. Allora diciamo “Il Vulcano” di Guareschi è una realtà molto complessa molto composita che fa di Milano una città che non si incasella tanto facilmnente nelle retoriche politiche.

 

Conclusioni

 Prof. Carlo Smuraglia, Presidente Nazionale ANPI

 Ci vorrebbe una buona dose di presunzione per pretendere di aggiungere alcunché alle relazioni, molto belle, di questa mattina o anche solo per commentarle.

Tuttavia questo non può che essere il compito di chi conclude una mattinata in cui il tema è stato  affrontato in tutti i suoi aspetti, come ci eravamo proposti.

Proprio in vista di un 25 aprile un po’ particolare, perché è quello del 70° dalla Liberazione, avevamo pensato che fosse giusto fare una riflessione su ciò che sono state la Resistenza e la Liberazione, partendo da Milano.

Questo Convegno è stato organizzato per singoli settori (aree tematiche), per esaminare tutti gli aspetti che hanno contraddistinto questa città, facendola diventare, in qualche modo il simbolo di tutta l’Italia.

Quando è stato scelto il titolo, uno studioso ha osservato, che forse era presuntuoso (o “eccessivo”) attribuire a Milano il titolo di “Capitale della Resistenza” e che forse, altre città,  avrebbero potuto risentirsi.

Ho risposto che non c’era nessuna presunzione in quel titolo e tanto meno veniva sottovalutato il ruolo svolto da altre città: pensare di non considerare tra i maggiori centri della Resistenza, ad esempio, Torino o Genova, sarebbe stato semplicemente una follia.

Con quella definizione si volle soltanto sottolineare che alcuni fatti, o alcuni dati, o iniziative, che pure sono stati presenti in altri luoghi, a Milano c’erano stati tutti; quello che la caratterizzava e che è emerso con chiarezza dalle relazioni di oggi, era la presenza di tutti i fattori, di tutte le componenti della Resistenza, a livello politico e a livello resistenziale in senso stretto.

Se avessimo detto, anziché “Milano capitale della Resistenza”, “Milano capitale della Liberazione”, avremmo fatto un’affermazione che avrebbe potuto ugualmente esserci rimproverata. Certo, Milano è stata anche la capitale della Liberazione, perché quelle foto con l’ingresso dei partigiani nella città, sono diventate il simbolo della Liberazione, riconoscendo a Milano, ancor una volta, la caratteristica specifica della compresenza delle componenti, anche militari.

Insomma il titolo mi pare che esprima correttamente quello che volevamo trasmettere, cioè le caratteristiche di una città, nelle sue luci, come nelle sue ombre, ampiamente descritte dal prof. De Bernardi, alla quale si può, lecitamente, attribuire sia il connotato di Capitale della Resistenza, sia quello di Capitale della Liberazione.

Però dopo ogni riflessione è giusto porsi anche degli interrogativi, perché questo è - alla fine - il nostro scopo: ragionare per riflettere, farsi domande.  Il quesito è questo: possiamo dire che questi attributi  siano ancora presenti nella Milano di oggi? Può davvero Milano fregiarsi ancora del titolo di “Capitale della Resistenza”?

E’ un interrogativo complesso, che in un certo modo non riguarda solo questa città, ma tutta l’Italia ed è il punto da cui dobbiamo partire. Credo che sia ormai di comune conoscenza, il fatto che questa parte stupenda della storia del nostro Paese, ripeto con le sue luci e le sue ombre, con la sua complessità, non è ancora entrata, a pieno titolo, nella storia d’Italia, né nella coscienza del Paese.

Non è diventata quell’elemento essenziale che consente ad un popolo di avere in comune. alcuni punti fondamentali, attraverso i quali si costruiscono le date storiche, i monumenti, i nomi delle strade, le festività e l’insegnamento nelle scuole, che rappresentano tutti insieme un tessuto connettivo.

C’è chi sta facendo il possibile per valorizzare e conservare questa storia a Milano.

Dico senza vanteria che L’ANPI, la FIAP, l’Istituto Nazionale per la Storia dei Movimenti di  Liberazione, l’ANED, stanno facendo, da anni, il possibile perché Milano senta di essere la capitale della Resistenza; e tuttavia abbiamo l’impressione che nonostante ogni sforzo, questa memoria, non dico condivisa, ma almeno collettiva, non si sia ancora realizzata.

Ci sono sintomi evidenti a Milano, come del resto altrove. Noi portiamo come ANPI, tutti gli anni, il 25 aprile, alle lapidi dedicate ai caduti, 400 corone di fiori e ricordiamo in mille occasioni il significato che ha la Loggia dei Mercanti, ma è anche vero che c’è una parte di città che di fronte a tutto questo continua ad essere indifferente. Alcuni ignari, perché  nessuno gli ha sufficientemente raccontato la storia della Resistenza; altri perché semplicemente disinteressati ed altri ancora, perché contrari ad essa per principio.

C’è anche dell’altro, manca cioè ancora una riflessione persino nelle scuole; ed anche in questo caso il problema non è soltanto di Milano, ma è di carattere  nazionale. Tutto quello che stabiliva perfino la legge Scelba, all’art. 9, ovvero che la Repubblica sarebbe stata impegnata ad insegnare nelle scuole che cosa era stato veramente il fascismo, dal 1992, non lo si è mai fatto seriamente; anzi, gli spazi per la conoscenza di questa memoria sono stati gradualmente ridotti. A Milano, in parecchie scuole, si fanno degli sforzi per tenere viva la memoria della Resistenza, ma tutto questo non basta se non c’è un disegno organico. Bisogna fare in modo che Milano senta oggi l’orgoglio di essere stata la Capitale della Resistenza, l’orgoglio di essere stata una città protagonista della pagina per la quale, noi tutti godiamo della libertà.

Questa rimozione è un danno per la collettività, poiché noi non insegnando abbastanza, ai giovani, la Resistenza; non insegnando a Milano perché la chiamiamo Capitale della Resistenza, creiamo delle generazioni ignare, che poi dimostreranno questa non conoscenza in tante occasioni quando diventeranno adulti, quando si metteranno a fare politica e non sapranno a quali valori fare riferimento.

Accade così un altro fenomeno particolare, forse addirittura favorito anche dalla distrazione e dalle assenze istituzionali, che pensa di fare di Milano la capitale del neo-fascismo e del neo-nazismo,  dando vita alla contraddizione più forte che si possa immaginare.

Se è vero che in Italia si stanno moltiplicando le iniziative di neofascisti e di neonazisti che organizzano manifestazioni con saluti romani e bandiere, se è anche vero che a Milano si realizzano, con sempre maggior frequenza, incontri di livello internazionale; è come se costoro volessero affermare che Milano deve essere la capitale della destra estrema. Questo è assolutamente inaccettabile ed ha un’origine molto specifica, a cui, in parte, ho già fatto riferimento.

Il problema vero è lo Stato, perché io continuo ad essere convinto che questo Stato come istituzione, non sia riuscito ancora a diventare veramente e coerentemente antifascista.

Se ciò fosse avvenuto,  sarebbero tenute – le istituzioni – a spiegare e far conoscere cosa è stato il fascismo e cosa la Resistenza, perché in tal modo si trasmetterebbe un messaggio chiaro e significativo. Quando lo si è fatto, i risultati si sono visti. Per fare un esempio abbastanza recente, ricordo che è stato sufficiente che il Sindaco Pisapia, parlando a nome di tutta la città, dichiarasse che a Milano quelle persone (i nazifascisti) non erano gradite, perché il proprietario della locale in cui avrebbe dovuto svolgersi l’incontro – a livello europeo -  ritirasse la concessione della sala.

Ma quanti sindaci prendono una posizione altrettanto chiara e ferma? Quanti Questori e Prefetti hanno risposto alle nostre proteste, di fronte a clamorose manifestazioni di tipo fascista, che non c’è una legge che le possa impedire? Ci sono due sentenze della Suprema Corte di Cassazione, che considerano reato il saluto romano; ciò nonostante alcuni Questori e Prefetti ancora rispondono che manca una legge. La conclusione è che non la vogliono applicare, o ignorano decisioni della massima istituzione giudiziaria del Paese, consentendo che si aprano spazi di cui altri cercano di impadronirsi, con atteggiamenti nostalgici e con immagini populistiche ed autoritarie.

Le riflessioni che facciamo, come quella di oggi, servono soprattutto a far sì che ne esca rafforzato un impegno antifascista maggiore, nella convinzione che quella lapide posta sulla facciata di Palazzo Marino, che ricorda le qualità resistenziali di Milano e la medaglia d’oro che per esse le è stata riconosciuta, non rappresenti un riconoscimento formale, ma esprima un significato profondo, che coinvolge - nella sua essenza - l’intera città e dunque tutte le cittadine e i cittadini; i quali, di essa, dovrebbero andare orgogliosi, considerando  le manifestazioni di neofascisti e neonazisti uno sfregio a tutta Milano ed a coloro che in questa città sono caduti per la libertà ed i nomi dei quali sono scolpiti  in più di 400 lapidi, prevalentemente dedicate al coraggio ed alla morte di giovani, talvolta anche di giovanissimi.

Se ci fosse questa consapevolezza, e se essa fosse – a Milano e in tutta Italia – alimentata dalle istituzioni, i saluti romani, i fasci littori, i simboli della X° MAS, dovrebbero essere considerati da tutti come qualcosa  che contrasta con la stessa natura di questa Repubblica, che - come emerge da tutta la Costituzione – non può che essere democratica e antifascista.

Dalla riunione di oggi dovrebbe uscire un impegno collettivo per fare in modo che Milano, Capitale della Resistenza e della Liberazione, sia anche la capitale dell’antifascismo. Una città in cui si coltiva la democrazia come una pianta preziosa, sottoposta  sempre a mille pericoli, da cui bisogna preservarla con cura e col contributo di tutti. Ricordare la Resistenza e la Liberazione, deve assumere anche il significato di una dichiarazione d’amore per la democrazia. Perché a questo serve la memoria attiva, a trasmettere soprattutto alle nuove generazioni il culto di quei valori ( libertà, uguaglianza, legalità, solidarietà) che finirono per trionfare sulla barbarie, 70 anni fa, restituendo al nostro Paese la libertà e la dignità perdute.