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Un altro riformismo, di Michele Magno

Pubblichiamo qui la prefazione al libro 'La libertà e il lavoro', curato da Michele Magno.



Quel tanto di criterio con cui sono qui raccolti gli scritti di Bruno Trentin ha un occhio rivolto all’oggi e ai suoi problemi. Anche i testi che più risentono delle circostanze in cui sono stati stesi conservano un significato per le discussioni dei nostri giorni. In varia misura, tutti si cimentano con la grande questione dei diritti e della rappresentanza del lavoro, che si ripropone ora imperiosa. Per un cinquantennio Trentin ne è stato un protagonista sulla scena italiana ed europea, come leader sindacale e come studioso autorevole. Ma l’intento di questa pubblicazione non è quello di celebrarne la figura. È piuttosto quello – come forse lo stesso Trentin avrebbe voluto – di mettere alla prova l’attualità del suo pensiero, in un passaggio d’epoca che ha decretato la cesura tra il capitalismo novecentesco e le nuove forme della produzione e dell’organizzazione sociale.



Quel tanto di criterio con cui sono qui raccolti gli scritti di Bruno Trentin ha un occhio rivolto all’oggi e ai suoi problemi. Anche i testi che più risentono delle circostanze in cui sono stati stesi conservano un significato per le discussioni dei nostri giorni. In varia misura, tutti si cimentano con la grande questione dei diritti e della rappresentanza del lavoro, che si ripropone ora imperiosa. Per un cinquantennio Trentin ne è stato un protagonista sulla scena italiana ed europea, come leader sindacale e come studioso autorevole. Ma l’intento di questa pubblicazione non è quello di celebrarne la figura. È piuttosto quello – come forse lo stesso Trentin avrebbe voluto – di mettere alla prova l’attualità del suo pensiero, in un passaggio d’epoca che ha decretato la cesura tra il capitalismo novecentesco e le nuove forme della produzione e dell’organizzazione sociale.

Il lettore non farà fatica a rintracciarne il filo rosso nell’idea che la libertà «viene prima» dell’eguaglianza, come recita il titolo del suo ultimo libro. All’osservazione di Norberto Bobbio, secondo cui bisogna sempre precisare cosa si intende per libertà[1], Trentin risponde che essa non può che essere la libertà della persona nel rapporto di lavoro. Libertà rimasta «diversa» e sostanzialmente negata nelle democrazie postbelliche. In qualche modo negletta perfino nella nostra carta costituzionale, che pure fonda sul lavoro l’edificio giuridico-statuale repubblicano[2].

Trentin non aveva alcuna simpatia per la drammaturgia concettuale di Hegel. Ammirava però il modo in cui aveva descritto – nella Fenomenologia dello spirito – la dialettica storica tra servo e padrone. Essa si conclude quando il servo diventa libero perché lotta – a differenza dello schiavo hobbesiano – non per la propria sopravvivenza, ma per il proprio riconoscimento come persona. La trattazione del filosofo tedesco, beninteso, si sviluppava sul piano astratto della conquista dell’autocoscienza. Ma la lotta del servo per affrancarsi dai suoi vincoli di dipendenza personale era, per Trentin, una metafora magistrale della lotta del salariato moderno per emanciparsi dal suo stato di minorità nel luogo di lavoro. Per emanciparsi qui eora, aggiungeva. Una diade che è stata la stella polare della sua riflessione teorica, volta a smantellare i presupposti di tutte le ideologie che posticipavano la libertà – del lavoro e nel lavoro – alla presa del potere.

 

Nella sua giovinezza, Trentin ha accolto alcuni motivi degli ambienti liberali frequentati durante l’esilio francese. Del federalismo del papà Silvio e della «rivoluzione delle coscienze» di Carlo Rosselli (con l’istruzione generalizzata come sua leva decisiva) ne serberà più di una traccia. Un’influenza l’ha avuta anche una certa predilezione per l’anarchismo di Kropotkin, per la sua etica libertaria e per la sua polemica antibolscevica. E il suo Marx preferito è stato quello dei Grundrisse, dove sviluppa il tema del lavoro come bisogno vitale. Ma è Giuseppe Di Vittorio ad aver lasciato un’impronta indelebile sulla sua cultura politica. Il memoriale che apre questa antologia ne è una testimonianza affettuosa[3]. Dopo l’ingresso nell’ufficio studi della Cgil (1949), dal carismatico bracciante pugliese impara che la liberazione del lavoro umano passa attraverso la capacità delle persone di alzare la testa di fronte al sopruso e all’arbitrio. Di qui anche la scelta di iscriversi al Pci, in cui scorgeva la forza popolare in grado di raccogliere il moto di ribellione e la volontà di riscatto delle masse subalterne. È Di Vittorio, inoltre, a trasmettergli quell’attaccamento al valore dell’autonomia sindacale (condizione dell’unità dei lavoratori) che resterà la parola d’ordine di tutta una vita. Due insegnamenti appresi nel vivo delle battaglie della Cgil, nell’immediato dopoguerra, per il blocco dei licenziamenti e per l’occupazione delle terre. È la Cgil che intendeva partecipare con una propria proposta alla ricostruzione del paese, con un proprio piano del lavoro (1949-1950)[4]. A prima vista sembrava solo un programma di opere pubbliche contro la disoccupazione dilagante. Di fatto era molto di più. Era un tentativo di orientare gli investimenti produttivi. Era la ricerca di un terreno di confronto con il ministero De Gasperi, dalla Cassa del Mezzogiorno alla riforma agraria, che aggrediva l’emblema della conservazione: il latifondo. Ed era, anzitutto, un appello all’azione di massa, da cui nacque quella sua forma originale che fu lo sciopero a rovescio. Una forma il cui senso era che si può affermare il diritto al lavoro sia rifiutando la propria prestazione, sia offrendola senza contropartita[5]. La Cgil di Di Vittorio, quindi, ambiva ad essere un soggetto collettivo responsabile del proprio destino, autonomo dai governi, dai padroni e dai partiti (secondo la sua celebre formula trinaria). Quel soggetto che più tardi si chiamerà politico. Una bestemmia per il sindacalismo di orbita sovietica. Un’eresia per la catechesi leninista del sindacato come «cinghia di trasmissione». Eresia che si manifestò in maniera clamorosa nel 1956, quando il capo della Cgil si schierò con i rivoltosi di Poznan e di Budapest, in nome dei diritti degli operai. Rievocando quell’avvenimento dopo quarant’anni, ovviamente a Trentin non interessava rispolverare vecchie polemiche. Il muro di Berlino era già caduto da un pezzo. La sua intenzione era un’altra. Era quella di sollecitare la sinistra italiana a fare i conti senza reticenze e senza giudizi sommari con il proprio passato, in un momento di frenetico cambiamento di nomi e di riferimenti ideali. Ed era quella di sollecitarla a leggere la vicenda del socialismo «reale» anche con le lenti degli innovatori sconfitti, i quali però avevano consentito di tenere accesa la speranza in un socialismo «possibile».

 

Il 1956 non è soltanto l’anno del contrasto tra Di Vittorio e Togliatti sui «fatti» polacchi e ungheresi. È anche l’anno in cui comincia a diventare operante la «svolta» della Cgil dopo la sconfitta alla Fiat del 1955 (ma solo nel 1968 sarebbe stata conquistata una piena contrattazione aziendale). La necessità di una revisione critica della politica della Cgil venne riconosciuta quando si comprese che la débacle nelle elezioni delle commissioni interne agli stabilimenti torinesi era dovuta non alla repressione padronale, ma al distacco con una realtà di fabbrica in forte cambiamento. Distacco derivante dal rigido centralismo contrattuale, che aveva tagliato fuori la Cgil dalle trasformazioni industriali della prima metà del decennio. Nelle durissime agitazioni degli anni cinquanta contro le smobilitazioni industriali, i lavoratori erano impegnati in una lotta per l’esistenza, come individui e come classe. La Cgil, come i partiti di sinistra, non vide allora nelle smobilitazioni quelle che esse in realtà erano, cioè pezzi di una ristrutturazione profonda ad opera di un capitalismo dinamico, ma vi scorse l’effetto del restrizionismo dei monopoli. Sulle tendenze del capitalismo italiano si aprì allora un lungo e vivace dibattito a sinistra, culminato in un importante convegno dell’Istituto Gramsci (1962).

Nella sua relazione[6], Trentin contesta la tesi – egemone nel gruppo dirigente del Pci – del monopolio come sinonimo di immobilismo e di stagnazione. Tesi che asseriva l’esistenza di un blocco dominante costituito da ceti parassitari, intenti a succhiare le risorse – sotto l’ombrello della Dc – create dai ceti produttori. Per lui, al contrario, fin dal 1953 la Dc passa dalla linea «malthusiana» del binomio Einaudi-Pella a una linea produttivistica, di cui è espressione il progetto di sviluppo e di riforma fiscale firmato da Ezio Vanoni (1954). In questa linea si combinavano due spinte: all’ammodernamento degli impianti (grazie anche ai crediti americani) e alla riduzione dei costi, sostenuta dall’industria pubblica (idrocarburi e siderurgia) e da una manodopera a buon mercato proveniente dalle campagne meridionali. Vengono così gettate le basi della cosiddetta restaurazione capitalistica, che innova profondamente metodi e sistemi produttivi, e che travolge le vecchie barriere dei consumi proletari.

Questi processi trovano una loro sistemazione ideologica in tutta una pubblicistica di marca anglosassone. Si fa avanti il mito dell’integrazione del lavoratore nell’azienda. Fiorisce una letteratura apologetica della grande impresa – assunta a modello di razionalità – attorno a cui plasmare le istituzioni. Viene glorificata la società manageriale, in cui diminuisce il peso della proprietà e aumenta quello delle tecnocrazie, in grado di garantire insieme progresso tecnico e promozione delle classi subalterne[7]. Per la diffusione in Italia di queste dottrine è però determinante – osserva Trentin – la mediazione del cattolicesimo sociale. Mediazione che provoca lacerazioni dolorose all’interno della Dc. Dopo un duro braccio di ferro, l’«americanismo» di Enrico Mattei e di Pasquale Saraceno prevale sulla sinistra sociale di Giuseppe Dossetti. La Cisl di Giulio Pastore, dal canto suo, mantiene un profilo pragmatista, che si sposa con la visione associativa del sindacato e con il primato assegnato alla contrattazione a ogni livello della vita economica. Contrattazione che deve però misurarsi con i problemi nuovi sollevati dalla modernizzazione capitalistica. L’ingresso massiccio di operai comuni e di tecnici nelle fabbriche, l’avvento della meccanizzazione, la poderosa migrazione interna fanno emergere una inedita coscienza operaia, che chiedeva più controllo e più negoziato sugli aspetti oppressivi della condizione di lavoro. Una domanda di potere destinata a scompigliare le priorità tradizionali del conflitto di classe[8].

È in questa temperie, segnata sul piano politico dalla crisi del centrismo, che nel mondo cattolico affiorano fermenti culturali nuovi. Viene messa in dubbio la filosofia del «progresso senza conflitto». Si levano le prime voci favorevoli all’unità sindacale. Su un altro versante, l’enciclica Mater et Magistra (1961), con la sua distinzione tra «errore ed errante», tra fede e politica, crea un clima più propizio al dialogo con culture di matrice marxista.

 

Quindici anni dopo, Trentin riprende il filo di questo discorso in uno dei suoi saggi più densi di spunti teorici[9]. Analizzando le radici del Sessantotto, vede proprio nell’incontro tra cattolici e marxisti uno degli elementi costitutivi dell’esperienza consiliare italiana. Incontro reso possibile da un convergente ripensamento critico delle rispettive tradizioni rivendicative. Quella interclassista e corporativa della Cisl, come si è accennato, aveva manifestato i segni di una crisi già nel periodo dell’enciclica giovannea. Per altro verso, la centralità assunta dalla tematica della condizione operaia nelle lotte unitarie del sindacato marginalizzava il suo vecchio salarialismo aziendalistico e la sua teoria dell’impresa come «comunità di interessi». La riscoperta dell’umanesimo cristiano di Emmanuel Mounier, poi, con la sua denuncia delle costrizioni imperanti nella fabbrica, dava un colpo al corporativismo cattolico anche nella sua versione neocapitalistica, patrocinata dai «modernizzatori» della Dc del centrosinistra.

Tutto il patrimonio del sindacalismo dei consigli – secondo Trentin – porta lo stigma di questo travaglio della componente cattolica. La rivalutazione del problema della persona, della difesa della sua integrità psicofisica e morale, ha contribuito a dare uno scossone salutare a un certo meccanicismo marxista, che spostava sempre a un «domani migliore» la lotta per modificare i rapporti di potere nel luogo di lavoro. Ma, oltre alla pressione culturale esercitata dal personalismo cristiano, è stato il dibattito seguito alla «primavera di Praga» del 1968 a rimettere in campo ipotesi che sembravano definitivamente accantonate dalla componente marxista del movimento operaio. E cioè la possibilità di introdurre, nelle società capitalistiche, non delle «isole di socialismo» (nazionalizzazioni e municipalizzazioni dei mezzi di produzione), ma dei punti di riferimento nuovi per la costruzione di una democrazia più avanzata, che includessero la questione della trasformazione del lavoro nella strategia delle riforme. In questo quadro, e nonostante la sua breve stagione, la cifra storico-culturale del sindacato dei consigli è stata contrassegnata dalla sua capacità di dare corpo a una prospettiva di cambiamento del lavoro, e a un modello contrattuale e di democrazia sindacale coerente con essa. Non c’era sicuramente bisogno di inventarsi il delegato di reparto – dice Trentin – per svolgere l’antico compito della tutela salariale. Il sindacato dei consigli – e il giudizio è di chi ne è stato tra i principali artefici come segretario della Fiom (dal 1962 al 1978) – ha saputo contestare non solo culturalmente, ma con un concreto movimento rivendicativo il sistema tayloristico, l’organizzazione gerarchizzata e autoritaria del lavoro. Un sistema concepito dalle ortodossie terzinternazionaliste (ma, in qualche modo, anche da Gramsci) come tappa obbligata dello sviluppo delle forze produttive e come modello neutro di organizzazione del lavoro, fungibile in regimi sociali diversi.

 

Il Sessantotto fu teatro di un aspro confronto nella Flm sulla questione dell’egualitarismo salariale. Trentin, da sempre ostile alla linea degli «aumenti uguali per tutti», non nega il fondamento che ebbero allora le richieste di cancellazione delle differenze – materiali e di status – tra operai e impiegati[10]. Ribadisce però tutto il suo scetticismo nei confronti di una scelta che, non priva di una certa dose di primitivismo sindacale, finì col favorire un appiattimento indifferenziato delle distanze retributive dovute alla professionalità e, quindi, una sua sostanziale mortificazione. E coglie l’occasione anche per citare «in giudizio per danni» – per così dire – i teorici del salarialismo. Quei teorici per i quali l’operaio non doveva cambiare il lavoro, ma doveva lavorare il meno possibile e al più alto prezzo, e cioè negare il lavoro. Per essi, alla fine, il salario doveva essere il risarcimento illimitato di un lavoro estraneo e maledetto. Così, solamente così, sarebbe venuta a galla l’irriducibile materialità dell’autonomia della classe operaia. Ad altri (alle avanguardie coscienti) l’«autonomia del politico». Un brodo ideologico che – per Trentin – aveva contribuito a sottovalutare le trasformazioni del lavoro impiegatizio e la crisi di identità che investiva tecnici e progettisti. E che aveva favorito l’insinuarsi in molti settori operai di una mentalità corporativa, che incasellava i capi tra i «servi» del padrone. Mentalità sfruttata dal terrorismo brigatista per procacciarsi la neutralità o la passività della classe operaia quando venivano feriti o uccisi tecnici e quadri. Con mirabile preveggenza (di lì a poco ci sarebbe stata la «marcia dei quarantamila» del 1980 alla Fiat), Trentin getta un grido di allarme sul solco che si stava allargando tra operai e capi. E rilancia il tema non dell’alleanza, ma dell’unità – politica e organizzativa – tra tutte le figure del lavoro di fabbrica.

Una postilla. Il proverbiale antiegualitarismo salariale di Trentin, l’indignazione che in lui suscitavano le divagazioni teoriche sul «salario politico» o sul «giusto salario», qualche volta sono stati scambiati per una sorta di disprezzo nei confronti dell’azione redistributiva del sindacato. L’accusa, se si pensa al suo ruolo nella storia del sindacato italiano, è – più che malevola – ridicola. Trentin, infatti, non ha mai sminuito la funzione dell’iniziativa salariale del sindacato. La stessa possibilità di un cambiamento del modo di lavorare era per lui del tutto illusoria senza il sostegno di una politica salariale selettivamente mirata ad incentivare tale cambiamento. La questione che ha sempre posto con forza è un’altra. È quella dei contenuti e degli obiettivi che deve avere la politica redistributiva. Se essa, cioè, deve essere finalizzata a fornire i mezzi materiali (in termini di reddito e servizi) per l’effettivo esercizio dei diritti sociali; oppure deve servire a compensare proprio la loro mancata fruizione, a partire dal luogo di lavoro. Per Trentin questo, e non altro, era poi il senso dell’amara constatazione di molti difensori della «società dei diritti», come Bobbio, quando affermavano che «la democrazia si è fermata sulle soglie della fabbrica».

 

Alla fine degli anni sessanta risultavano già sconfitte le ambizioni «sviluppiste» di matrice cattolica (Mattei, Saraceno) e quelle programmatorie del centrosinistra (Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti). Nel decennio successivo parte una controffensiva capitalistica che si concretizza nell’attacco al potere contrattuale acquisito in fabbrica. Il mutamento del quadro mondiale (esaurimento dell’accordo di Bretton Woods, golpein Cile, crisi energetica del 1974) spezza l’equilibrio tra sviluppo e occupazione. Nel 1976 il Pci entra nella maggioranza di governo. Sono gli anni del «patto tra i produttori», della «svolta dell’Eur» (1978), dello «scambio politico» tra salari e investimenti, del terrorismo e della disfatta – politica e sindacale – nella vertenza contro i licenziamenti alla Fiat (1980). Nei primi anni ottanta l’unità tra le confederazioni è già logorata, e – con essa – il movimento dei consigli. Il referendum sulla scala mobile (1985) spacca il mondo del lavoro. L’intero panorama produttivo entra in una fase di intenso mutamento. Cambia la «composizione demografica» del paese (per dirla con Gramsci). Si modificano figure sociali, combinazioni di redditi e di interessi, rapporti con il mercato del lavoro, con l’impresa e con lo Stato (nella sua faccia fiscale, assistenziale e amministrativa). Una «grande trasformazione», per riprendere l’espressione di Karl Polanyi, che scompagina sistemi d’impresa, di relazioni industriali, di welfare. E che riapre domande laceranti sul destino del lavoro, sulla sua capacità di mantenere le antiche promesse di sicurezza, inclusione, universalismo. Uno scenario in cui le forze riformatrici si trovano disorientate, e più di una volta in bilico tra l’accettazione delle giaculatorie sulla modernizzazione, una linea di mera resistenza all’offensiva neoliberista, la ricerca di «terze vie» d’uscita dal recinto laburista. È in questo contesto che Trentin propone, in una ormai storica Convenzione della Cgil (1989), un patto di «solidarietà tra diversi» e un «sindacato dei diritti»[11].

Quel patto e quel sindacato nascono come risposta alla rottura del vecchio compromesso distributivo sul quale si fondava, in ultima istanza, la funzione di rappresentanza generale del lavoro subordinato esercitata dal sindacato confederale. Crisi fiscale dello Stato e crisi di consenso di un welfare sempre più burocratizzato; finanziarizzazione dell’economia e cedimento del paradigma fordista: erano tutti fattori che stavano mettendo in discussione il modello sociale conosciuto nel secondo dopoguerra. Una crisi storica che investiva ormai tutte le nazioni industrializzate, e che si manifestava non solo con la frantumazione corporativa del conflitto sociale, ma anche come crisi politica e culturale del sindacato. La solidarietà di classe non era più un presupposto ideale unificante. La solidarietà di classe andava riedificata dalle fondamenta, identificando tutti i titolari di un nuovo compromesso sociale. Prendendo atto del declino dei vecchi gruppi sociali egemoni, e definendo con i protagonisti potenziali di un diverso schieramento del lavoro gli obiettivi comuni che potevano cementare un nuovo patto di cittadinanza. Questi protagonisti potenziali altro non erano che le persone, con le loro domande di lavoro specifiche e con i loro bisogni di tutela individuali. E quegli obiettivi altro non potevano essere che la conquista di nuovi diritti di valenza universale: umani, del lavoratore, del cittadino. E di quelli rivendicati dalle pacifiche rivoluzioni novecentesche delle donne, degli ecologisti, della scienza della tecnica.

 

A chi lo aveva rimproverato di aver così appannato il concetto di classe e aggirato il nodo del potere, Trentin replica che tra i diritti della persona e la questione del potere c’è una relazione stretta[12]. Nel senso che la loro esigibilità richiede sempre il conflitto, che è conflitto di potere. Tanto più quando i diritti universali sono di persone assai diverse tra loro per reddito, status, posizione lavorativa. Per il loro effettivo godimento, quindi, è necessaria un’iniziativa complessa da parte delle forze sociali, sul terreno legislativo e contrattuale. Il crollo dei regimi collettivistici dell’Est, d’altronde, aveva smentito l’assunto – per parafrasare un adagio di Bertolt Brecht – secondo cui prima andava riempita la pancia e poi si poteva parlare di diritti. Si era visto, invece, che si possono avere i crampi allo stomaco e soffrire ancora di più per la mancanza di diritti e libertà elementari, tra cui quella di organizzarsi proprio per riempire la pancia.

Quanto al concetto di classe, Trentin osserva che neanche Marx era caduto nella trappola del «redditometro». Una certa vulgata marxista aveva oscillato a lungo nella scelta dei suoi parametri definitori, propendendo però alla fine per quello del reddito (con un pizzico di Max Weber quanto alla capacità del consumatore di muovere risorse sul mercato). La classe dei salariati esiste, ma si definisce per il rapporto di lavoro subordinato che la connota. Un rapporto – precisa Trentin – che non scomparirà mai del tutto. Ma che può essere gradualmente esonerato dai suoi vincoli più opprimenti. La stessa crisi del fordismo lo stava a dimostrare.

 

Nel 1995 Trentin lascia la segreteria generale della Cgil, e dedica tutte le sue energie a una rilettura dei classici del marxismo e all’elaborazione di un progetto per la sinistra del terzo millennio. Nel 1992 aveva firmato un accordo con il governo Amato, vissuto come una dolorosa sconfitta personale, perché sanciva – con il blocco della contrattazione aziendale – un arretramento del ruolo del sindacato, della sua autonomia e della sua capacità di rappresentanza. Una sconfitta rimontata con il protocollo dell’anno seguente siglato con il governo Ciampi, che restituiva al sindacato la sua funzione negoziale, dentro una cornice condivisa di regole e di obiettivi di sviluppo. Ma, prima ancora, c’era stata la caduta del muro di Berlino (1989). Trentin aveva accolto con un senso di liberazione il collasso di una dittatura totalitaria piena di tragedie e di orrori. Tuttavia, avvertiva tutta l’insufficienza degli strappi e degli anatemi frettolosi di chi voleva rimuovere la propria identità senza fare i conti fino in fondo con il pluralismo culturale del socialismo, e con una concezione che restava elitaria della politica e del partito.

Per Trentin già prima del 1989 lo schieramento delle forze riformatrici – italiane ed europee – era stato spiazzato dalla crisi del fordismo e del welfare state. Da qui un suo spaesamento strategico, in cui si era continuato a eludere la questione della democrazia industriale, ossia dei rapporti di potere tra governanti e governati nell’impresa. Questione cruciale per superare l’impasse della «democrazia bloccata». Bloccata perché, proprio in quanto scartava le domande di maggiore autonomia del lavoro, era costretta a sopportare un sovraccarico crescente di domande sociali, che una politica puramente redistributiva non era più in grado di soddisfare. E che dunque rischiava di piegarsi, come era accaduto più di una volta nella lunga transizione italiana, alle tentazioni di selezione autoritaria di chi va incluso o escluso dalla cittadinanza[13].

È lo stallo delle forze riformatrici sul tema della libertà del lavoro che spinge Trentin, nel decennio a cavallo del secolo scorso, a riscoprire altre esperienze, altre anime del movimento operaio e democratico che, sebbene minoritarie nel periodo tra le due guerre mondiali, potevano fornire indicazioni utili a fronteggiare le sfide del postfordismo. In questa ricognizione, che spazia dal socialismo gildista all’austromarxismo, dai comunisti consiliari ai federalisti di «Giustizia e Libertà», spiccano due nomi: Karl Korsch e Simone Weil. Korsch teorico dello Stato sociale di diritto, in cui si uniscono rappresentanza politica e forme di controllo dal basso sulle condizioni e sull’organizzazione del lavoro. Weil, poi, che già nei suoi scritti degli anni trenta, pur con un percorso diverso da quello di Hannah Arendt, individua nell’alienazione del lavoro una contraddizione stridente delle democrazie moderne. Weil che all’utopia del dispotismo illuminato, il quale finisce per opprimere nell’illusione di liberare, oppone un’utopia «sperimentale» che consenta al lavoratore subordinato di esprimere la sua autonomia e la sua creatività nel lavoro. Un’utopia che eserciterà una notevole influenza su quanti, come Georges Bernanos ed Emmanuel Mounier, si misureranno con gli effetti devastanti della grande razionalizzazione capitalistica. Nomi e idee che per Trentin dimostravano la necessità di «cercare ancora». E che il socialismo possibile si fonda sul graduale superamento della divisione tra un sapere che comanda e un fare che esegue, e non sull’attesa messianica di una società diversa da conquistare fuori dal luogo di produzione, attraverso l’occupazione dello Stato.

 

Il «cercare ancora» di Trentin diventa così una indagine meticolosa sulla crisi del fordismo. Preferisce parlare di crisi piuttosto che di fine del fordismo, cioè di un passaggio non ancora compiuto: crisi della civiltà manageriale, della sua formidabile forza espansiva come modello di crescita, capace di condizionare l’intero orizzonte occidentale, dalla fabbrica ai servizi, fino alla formazione dei saperi[14]. Alcuni pilastri del modello e dell’ideologia fordista – egli sostiene – sono stati irreversibilmente compromessi dalla rivoluzione informatica e dalla globalizzazione. L’uso flessibile delle tecnologie telematiche e del lavoro sconvolge il sistema industriale basato sulla produzione in serie, sulla (relativa) rigidità delle sue tecnologie e sulla sua concentrazione in grandi unità aziendali. Così come permette di spostare la competizione tra le imprese sulla qualità del prodotto, assegnando alla domanda un ruolo nevralgico nella stessa programmazione d’impresa. Con la globalizzazione, inoltre, lo stesso processo competitivo si estende al campo dell’innovazione tecnologica, riducendone drasticamente i costi.

Queste trasformazioni strutturali non possono che tradursi in una crisi del rapporto di lavoro fordista, imperniato sulla parcellizzazione delle mansioni, sulla stabilità dell’occupazione e sulla completa deresponsabilizzazione del lavoro esecutivo. L’occupazione diventa sempre più flessibile e precaria. Nello stesso tempo, si chiede al lavoro un maggiore coinvolgimento nei suoi risultati qualitativi. Il taylorismo – l’organizzazione «scientifica» del lavoro – è anch’esso messo radicalmente in discussione. Ma ciò non implica in modo automatico la sua eutanasia. Paradossalmente, il taylorismo può sopravvivere in maniera inerziale – soprattutto nei suoi aspetti disciplinari – alla crisi del fordismo. Proprio perché la contraddizione tra la richiesta di maggiore flessibilità e la richiesta di maggiore responsabilità del lavoro diventa contraddizione tra la sua divisione tecnica e la divisione dei poteri in azienda. Una contraddizione che può essere superata, almeno in parte, soltanto da un nuovo sistema contrattuale e di relazioni industriali, che comporta in ogni caso una ridefinizione dei poteri del management. L’alternativa è un inasprimento dei connotati autoritari e gerarchici del taylorismo. Un suo ritorno di fiamma, in versioni più o meno aggiornate, era pertanto un’eventualità da non scartare, come facevano i teorici della morte già certificata del fordismo[15].

Trentin dunque non si nascondeva i pericoli d’involuzione nella condizione di lavoro e nella struttura del mercato del lavoro, insiti in una transizione produttiva ancora priva di soluzioni organiche. Ma accanto a tali pericoli sottolineava anche il potenziale di apertura, di innovazione e di emancipazione implicito nella crisi del fordismo. Secondo la sua lettura, erano più mature le premesse di un progetto di lotta all’alienazione e alla reificazione del lavoro salariato. Un progetto incentrato sulla valorizzazione crescente dell’elemento «personale», sull’assunzione della figura del lavoratore come persona, con le sue esigenze professionali, di autonomia, di istruzione e di salute, con le sue libertà e con la volontà di realizzarsi anche nel proprio lavoro. Qui, proprio al livello della ricostruzione di una soggettività irriducibile alla dimensione di merce, Trentin rispondeva a quelle culture del riformismo di fine secolo che si interrogavano sul valore del lavoro nella postmodernità, mettendo in dubbio l’antico gradino da esso occupato nella scala di priorità dell’esistenza. Culture che avevano espulso dal loro orizzonte programmatico l’idea che il fare asse attorno al lavoro – liberato invece che mercificato – significava porre un problema di struttura della società e della persona, non di redistribuzione.

 

Allo scavo di questa idea Trentin si è dedicato negli ultimi anni della sua ricerca «militante», come gli piaceva ripetere. Ne è nato un testo che costituisce un suo simbolico testamento politico per la sinistra e il sindacato del ventunesimo secolo[16].

Non c’è una sola storia del movimento comunista e non c’è una sola storia del movimento socialista europeo, dice Trentin. La storia di tutta la sinistra sulla questione del lavoro e delle sue libertà, al contrario, è ricca di elaborazioni e di posizioni contrastanti. Ci sono state opzioni fortemente contrapposte tra loro, ad esempio, tra il primato dell’eguaglianza delle opportunità (in termini di diritti e libertà individuali) e il primato dell’eguaglianza dei risultati (in termini di redistribuzione del reddito). Ma tutte le antinomie di cui è cosparsa la storia del movimento operaio sottendevano risposte diverse a un unico grande quesito: il superamento dell’alienazione del lavoro è possibile nel lavoro stesso oppure soltanto fuori di esso? Quesito che ha riguardato prevalentemente le culture di ispirazione socialista (comprese le correnti anarchiche e libertarie), perché le culture liberali hanno di fatto rimosso il lavoro come fonte di un diritto di cittadinanza (e qui Trentin prende le distanze da alcune suggestioni culturali giovanili). Le culture liberali, anche le più avanzate sul terreno della democrazia politica, hanno infatti subordinato alla proprietà (come fattore di indipendenza) l’appartenenza alla polis. Una cosa è comunque certa. Con la crisi del fordismo e del taylorismo, il riformismo italiano è costretto nuovamente a confrontarsi con la questione del lavoro e delle sue libertà. E solo se riuscirà a scrollarsi realmente di dosso una pervicace subalternità alle loro ideologie – afferma Trentin – potrà coraggiosamente elaborarne il lutto.

Per Trentin, quindi, grandi scelte stanno di fronte alla sinistra e a un sindacato che non intenda rinunciare al suo ruolo politico nella società complessa. Grandi scelte da costruire con il consenso di una maggioranza – politica e sociale – che non sia la sommatoria di interessi tra loro confliggenti. Ma che sia espressione di un confronto – ideale ed etico – volto a cercare le ragioni fondanti di un nuovo patto di solidarietà tra i cittadini. A partire da quei cittadini che vivono del proprio lavoro e che aspirano a un’occupazione qualificata. Un nuovo patto di solidarietà, inoltre, basato sullo smantellamento dei privilegi e delle incrostazioni burocratiche di quello che, in Italia, restava ancora un «welfare delle corporazioni», creatore di diseguaglianze ed esclusioni. Si tratta, in altre parole, di costruire una vera e propria «società delle opportunità», con il concorso di una solidarietà fiscale trasparente, esplicitamente finalizzata a «personalizzare» gli interventi nel campo della scuola, della formazione permanente, dell’invecchiamento attivo della popolazione, della sicurezza sociale. Solo con un simile approccio una sinistra del ventunesimo secolo può utilizzare gli strumenti fondamentali della ricerca, dell’innovazione tecnologica, della domanda pubblica, per orientare strategie imprenditoriali e politiche di sviluppo.

Per Trentin si possono così consolidare le basi di quella che chiama una «riforma istituzionale della società civile». Una riforma che promuova una nuova stagione legislativa sul terreno dei diritti civili e sociali, definisca le regole della vita democratica delle associazioni volontarie (sindacato compreso), stabilisca i codici di comportamento delle imprese che operano nel mercato sociale. Lungo questa via, la liberazione del lavoro dai suoi ceppi più gravosi può diventare un credibile progetto di trasformazione della vita quotidiana, e non una promessa ingannevole. Una promessa la cui realizzazione è consegnata alle generazioni future, magari per giustificare i sacrifici di chi subisce non i costi necessari di una politica riformatrice, ma le rinunce e le disparità di trattamento dovute anche a una politica concepita come arte del trasformismo o, nella migliore delle ipotesi, come pura tecnica della governabilità.

 

Il progetto di cui parla Trentin, al fondo, è una sorta di «utopia laica». Non promette la felicità a tutti. Vuole dare a ciascuno i mezzi (i diritti per poterli usare) che gli consentano di realizzare al meglio le proprie aspirazioni personali. Questo ciascuno non è soltanto ricco o povero, ma è anche debole o forte, aggiungeva Trentin. Un patto di «solidarietà tra diversi» è quello che riesce a unire i deboli con il maggior numero possibile di forti, con chi tra essi è schierato sul fronte dell’innovazione e non del privilegio. Tutto ciò richiede un progetto, appunto, che sappia trasformare in energia politica il bisogno – anche morale – di dare un senso all’avvenire. Questa energia politica non si sprigiona addizionando gli appetiti corporativi delle clientele elettorali. Esige invece un’idea di società capace di dare alla terza rivoluzione industriale una finalità e un orientamento carichi di speranze, e non di angosciose inquietudini.

Nell’ultima parte della sua esistenza Trentin ha insistito molto su questo punto, richiamando le forze del cambiamento a uno scatto – anche etico – sul terreno della progettualità politica. Nella politica italiana di inizio secolo vedeva un’attenzione spasmodica rivolta al «chi governerà e con chi», non al «che cosa farà». E non si stancava mai di ripetere che una riforma della politica può anche essere ispirata dall’alto, da iniziative istituzionali o dai vertici dei partiti, ma può maturare solo da tensioni, passioni, conflitti nella società. Se si guarda al tempo presente, non si può certo dire che fosse un predicatore saccente. Fenomeni diversi ma riconducibili allo spettro della globalizzazione ingovernata, come l’insicurezza del lavoro e fisica o l’immigrazione, spaventano interi pezzi della società italiana. Molti deboli – anziani, giovani precari, lavoratori a basso reddito, operai non solo delle microimprese – sembrano voltare le spalle alla sinistra riformista, percepita ormai come uno schieramento di ceti medi con stili di vita metropolitani. Una sinistra che è parsa per troppo tempo più impegnata a definire i contenitori che i contenuti, e che ha trascurato non tanto il discorso sul «popolo», ma il popolo stesso. Quei ceti deboli hanno certamente espresso una domanda forte di protezione, ma anche una richiesta di nuovi legami identitari e di nuove solidarietà sociali. In assenza di altre offerte politiche convincenti, hanno finito col trovare rappresentanza nel populismo berlusconiano e nel comunitarismo leghista.

Trentin, in conclusione, ha ancora molte cose da dire alla sinistra e al sindacato di questo paese. Si dice sempre più frequentemente che i termini sinistra e destra non corrispondono più alla natura politica della realtà. Si dice che oggi, in una società come la nostra, si può parlare correttamente sia di un riformismo che punta sulla modernizzazione del paese, dell’economia e dello Stato, sia di un riformismo che vuole recuperare identità e sicurezza. Può darsi. Trentin ci ha detto che esiste anche un altro riformismo, il quale – senza negare la ragionevolezza di quelle istanze – trova la sua giustificazione e il suo fondamento nella vitalissima tensione dei lavoratori a determinare il proprio futuro, ad esserne partecipi, alla libertà. La sua straordinaria biografia politica e intellettuale è tutta dentro questa prospettiva di ricerca, segnata dalla costante preoccupazione di trovare un rapporto tra il dire e il fare, per dare corpo alle idee e all’iniziativa dei lavoratori, per realizzare il loro diritto alla conoscenza e al sapere, che costituiscono la vera anima dell’innovazione. Per la sinistra e per il sindacato – diceva – non è possibile avere la fiducia dei lavoratori se non hanno fiducia nei lavoratori, nella loro intelligenza, nella loro sensibilità. Gli scritti che seguono sono anche il racconto di questa grande fiducia nei lavoratori che aveva Bruno Trentin.

 

 

 

 

 


[1] Cfr. Norberto Bobbio, Destra e Sinistra, Donzelli, Roma 1995, p. 115.
 

 



[2] Per Trentin il diritto al lavoro sancito nella Costituzione era il frutto di un compromesso alto tra la tradizione marxista e la tradizione cattolica. Restava fondamentalmente, tuttavia, un diritto all’occupazione da compensare con un «equo salario». Cfr. il suo Uno Stato da reinventare (intervista di Renato D’Agostini), in «Rassegna Sindacale», n. 15, aprile 1995. La formulazione del primo comma dell’art. 1 della Costituzione si deve alla penna di Amintore Fanfani. Dopo una vivace disputa nella Commissione dei 75 dell’Assemblea Costituente, venne invece respinto (perché giudicato troppo «classista») un emendamento di Palmiro Togliatti che diceva: «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori».
 

 



[3] Vedi Gli eretici della Cgil, infra.
 

 



[4] Il piano del lavoro fu presentato dalla Cgil nella Conferenza di Roma (febbraio 1950). Lo tenne a battesimo un gruppo di giovani economisti keynesiani, tra cui Sergio Steve, Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini.
 

 



[5] Cfr. Vittorio Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 243.
 

 



[6] Vedi Le dottrine neocapitalistiche e l’ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana, infra. Le altre relazioni introduttive al convegno furono tenute da Giorgio Amendola e da Antonio Pesenti e Vincenzo Vitello.
 

 



[7] Cfr. Pietro Ingrao, Masse e potere, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 109-111.
 

 



[8] Nella sua replica al convegno dell’Istituto Gramsci, Giorgio Amendola bollò come avveniristiche le posizioni di Trentin. E ribadì che il compito fondamentale del-l’iniziativa operaia era quello di supplire alle carenze di una borghesia assenteista sul terreno delle riforme e dello sviluppo (rendite, parassitismi, arretratezza del Mezzogiorno).
 

 



[9] Vedi Economia e politica nelle lotte operaie dell’ultimo decennioinfra.
 

 



[10] Vedi L’egualitarismoinfra.
 

 



[11] Vedi Per una nuova solidarietà riscoprire i diritti, ripensare il sindacatoinfra.
 

 



[12] Vedi Senza diritti nemmeno la pancia pienainfra.
 

 



[13] Vedi Lavoro e cittadinanzainfra.
 

 



[14] Vedi La crisi della società manageriale e la fine delle vecchie certezzeinfra.
 

 



[15] Marco Revelli è stato lo studioso che in quegli anni più ha parlato di fine del fordismo e del modello «burocratico-militare» di gestione che avrebbe mutuato dallo Stato. Nel tempo della «produzione snella» per l’impresa diventava indispensabile l’integrazione del lavoratore non solo nella disciplina, ma nella logica produttiva. Tendeva cioè ad assorbirlo nelle sue ragioni, gli chiedeva non soltanto l’erogazione della forza di lavoro, ma l’«anima». Cfr. il suo Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995.
 

 



[16] Vedi La libertà come posta in gioco nel conflitto socialeinfra.