Una modernità da riscoprire, di Goffredo Bettini

Trentin fa parte di quella leva di giovanissimi, che fu chiamata all’impegno, come ricorda spesso Ingrao, spinti quasi a calci dalla storia. La guerra di Spagna vista con gli occhi di un bambino precoce; e poi l’invasione tedesca di tutta l’Europa, la codardia della monarchia italiana e il tallone di Hitler sulla patria; l’impegno del padre per la libertà ed i primi incontri con i grandi personaggi dell’antifascismo internazionale nei fugaci approcci che permetteva la clandestinità. Questo turbinio di emozioni portò Trentin a 17 anni, a scegliere la strada di combattente partigiano. Audace ed esperto.

Trentin fa parte di quella leva di giovanissimi, che fu chiamata all’impegno, come ricorda spesso Ingrao, spinti quasi a calci dalla storia.
La guerra di Spagna vista con gli occhi di un bambino precoce; e poi l’invasione tedesca di tutta l’Europa, la codardia della monarchia italiana e il tallone di Hitler sulla patria; l’impegno del padre per la libertà ed i primi incontri con i grandi personaggi dell’antifascismo internazionale nei fugaci approcci che permetteva la clandestinità. Questo turbinio di emozioni portò Trentin a 17 anni, a scegliere la strada di combattente partigiano. Audace ed esperto.
È struggente il suo diario di guerra che racconta anche militarmente, con puntigliosa precisione, il periodo che va dal settembre al novembre del 1943. Innanzitutto per l’ardore del suo sentimento di giustizia: che rende netta, prepotente, indiscutibile la sua decisione di aderire alla lotta armata.
Ma l’ardore è già bilanciato da valutazioni più mature. Dalla comprensione di vivere una fase di transizione eccezionale, che, seppure a malincuore, comporta compromessi e ampie alleanze.
E, infine, colpisce la fiducia, quasi una candida fiducia verso quella armata rossa guidata da Stalin. Nulla sa, allora, Trentin della realtà del regime comunista; e sappiamo noi invece e saprà anche lui, quante disillusioni, errori ed orrori il futuro ci riserverà di scoprire.
Ma soprattutto, nelle pagine del diario di guerra, emerge una cifra che rimarrà caratteristica di Trentin, in tutta la sua vita.
L’esigenza dell’azione, del fare.
L’essere 'parte', anche in modo aspramente marcato, non deve, tuttavia, mortificare la politica e l’interesse generale. Così: libertà e giustizia, lotta e partito, si intrecciano indissolubilmente alla rinascita dell’Italia, abbandonata dalle vecchie classi dirigenti. Si lotta per il socialismo, riconnettendosi a Mazzini, a Garibaldi, a Vittorio Veneto e vendicando Caporetto.
Il PCI, in Italia, divenne grande, e fu anche anomalo, perché in quello scontro apparve la forza più organizzata, coerente, fattiva. Non per altro. Questo nucleo politico così legato alla realtà e alla nazione è la vera grande eredità positiva che ci viene da quella storia. Tant’è che oggi quel nucleo, nella sua parte più viva e moderna, tra rotture e discontinuità, è riuscito, tuttavia, a unirsi con gli altri percorsi del riformismo italiano. Quello socialista, laico e cattolico, per dare vita all’avventura e alla speranza del PD. Di cui Trentin è stato importante e discreto dirigente.
Nel PCI, tuttavia, e nel sindacato, il pane della sua vita, Trentin fu uomo di tendenza.
Prende di punta, soprattutto, la pretesa dell’autonomia del 'politico'. Di una politica onnipotente, autoreferenziale e così alla fine distante dalle masse, dal conflitto sociale, dalla realtà.
C’è, qui, una grande e radicale distanza dalla visione leninista del partito. Nella consapevolezza che si fa presto a passare dal primato del partito, al primato degli apparati, dei burocrati, dei tecnici cinici e senza anima.
La sua preoccupazione (sappiamo quanto attuale) è che si crei una sfera sospesa e lontana dell’azione politica, indifferente al merito e racchiusa, alla fine, in un pragmatismo tendente al trasformismo. Antico male italiano, che aprì le porte al fascismo.
E poi, se dovesse saltare il nesso tra lotta sociale e politica, è chiaro che anche il ruolo del sindacato non potrebbe che rimanere nei limiti del corporativismo, della rivendicazione quantitativa.
E per questo, sulla base dell’insegnamento di Di Vittorio, Trentin pensa ad un sindacato che sia anche soggetto politico. In grado di unire la fabbrica al territorio, il salario alle sorti della nazione.
Partire dunque, nell’azione, dai dati reali, per costruire un progetto in grado di esprimere egemonia, di convincere i lavoratori e gli italiani.
Un progetto aperto, da costruire in relazione alle masse, democratico. Ma un progetto. Perché gli avversari un progetto lo hanno.
E se si va alla sostanza questo progetto si alimenta di due convincimenti assai profondi: il valore del lavoro e la necessità della sua liberazione.
La liberazione del lavoro è la condizione più generale di una realizzazione e liberazione degli esseri umani. Qui si avverte tutto il carico positivo di una formazione antiscolastica di Trentin. Sempre insofferente nei confronti di categorie troppo artificialmente unificanti: la classe, il proletariato.
Più attento a scandagliare le differenze, le attese, le possibilità dei lavoratori in carne ed ossa. Presi nel momento specifico in cui essi si confrontano con il ciclo produttivo e con le sue alienazioni, ma anche le sue potenzialità.
Decisiva diventa la coscienza e la padronanza che essi conquistano sui tempi del loro lavoro; sulla sua qualità ed organizzazione; riconquistando una parte della identità e della pienezza di vita a loro tolta.
In questo pensiero c’è l’influenza del personalismo francese, assorbito in gioventù attraverso Maritain e Mounier. E c’è la lunga amicizia e consonanza intellettuale con Pietro Ingrao. Quella curiosità, al di là dei codici, delle leggi, delle forme, delle norme, nei confronti della ricchezza, irripetibile ed unica, che ogni essere umano si porta dentro. La sinistra, in fondo, è far venir fuori questa ricchezza, darle la parola, il diritto di vivere ed esprimersi.
Si è detto che negli ultimi anni Trentin è rimasto un po’ in disparte. Non lo so.
Sta di fatto che la sua analisi, il suo pensiero, le sue intuizioni via via appaiono sempre più acute ed adeguate a cimentarsi con i nuovi scenari della terza rivoluzione industriale e della globalizzazione.
Trentin vede, infatti, tutto il tema di una nuova scomposizione dei lavori. E sente tutta la povertà di una risposta egualitaria, solo salariale, quantitativa. Al lavoratore l’impresa contemporanea chiede di più e gli dà più alte responsabilità. Essenziale è dunque riappropriarsi dei tempi, dell’organizzazione, dell’informazione nei luoghi di lavoro. Questo impone investire sulla scuola, sulla formazione permanente, sull’anzianità attiva. Io sento bruciante l’attualità di questa ricerca. Voglio anzi esplicitamente richiamarla, in conclusione, per affrontare un tema che riguarda noi, il Partito Democratico.
Trentin teneva al progetto, più che ad ogni altra cosa.
Ma come si costruisce un progetto? E che partito serve per renderlo possibile?
Non solo i lavori sono diversi e più articolati rispetto al passato.
Oggi è lo stesso cittadino che si presenta con mille facce e molteplici esigenze.
Al partito non arrivano più domande selezionate da soggetti sociali omogenei e coesi, ma persone un po’ fluide, nella loro identità sociale, nei loro convincimenti ideali e nei loro riferimenti culturali.
Queste persone si può rinunciare a farle esprimere. Si può scegliere di interpretarle, al massimo.
Sarebbe la vecchia politica, che ha portato alla crisi dei vecchi partiti. Sempre più separati dalla dimensione reale dell’esistenza. In questa crisi di una rappresentanza più diretta, trasparente e vera è evidente che si sono spalancate le porte a Berlusconi, al populismo. E che oggi riaffiora, nel clientelismo e nel mercato dilaganti, anche la corruzione.
Da anni sento una insufficiente lotta su questo terreno.
Abbiamo provato a fare davvero un nuovo partito?
Qualcosa che si misurasse veramente con questa nuova condizione umana, esistenziale, civile anche del nostro popolo?
O abbiamo invece praticato un riformismo dall’alto intrecciato ad una diffusa gestione del potere?
Lasciando nella pratica, non nelle intenzioni, inevasa una domanda diffusa di buona politica, di responsabilizzazione e partecipazione.
Ecco perché: guai a perdere ora l’occasione della costruzione del Partito Democratico.
Abbiamo bisogno di pluralismo e di ricerca. Anzi, uso un concetto di Trentin; di una formazione permanente. Di far tornare nei nostri circoli intellettuali, cultura, pensiero, indagine sull’Italia.
Faremo la Summer School. È un primo segnale importantissimo. Ma tutto ciò deve servire a rendere più consapevole e alto il momento dell’esercizio del potere e della decisione che deve tornare agli iscritti. A iscritti veri. Motivati. Che aderiscono in modo trasparente e diretto.
Siamo disposti a questo?
Davvero, di fronte a questa sfida, appaiono poca cosa le correnti, le cordate, le catene di comando personalistiche, e tante questioni verranno anche un po’ disciplinate dal basso.
Dobbiamo alzare l’asticella. Non essere più ex DS, ex popolari, ex Margherita o ex socialisti.
Dobbiamo immergerci in questa dimensione del futuro, che esige grande coraggio nel tentare una più efficace rappresentanza dei cittadini ed una vera democrazia nei partiti.
In questo viaggio, sento vicino Trentin: quanto ci serve; e quanto ci manca. Così riservato nelle riunioni, ma così in ascolto. Così assente nelle TV e sui giornali. Ma così decisivo nella storia italiana. Così inzeppato nella sua vita di cose vere fatte, combattute, pensate. Ma che trovava il tempo di parlare con un ragazzo come me, negli anni’70, a casa di Ingrao in tante serate, pacate e dense, che ti facevano sentire grande ed orgoglioso di poter respirare un po’ il profumo di una intera epoca politica, segnata da veri protagonisti che stavano lì a chiacchierare con la semplicità e la forza che hanno sempre quelli che valgono e che contano.