La tagliola dell'età pensionabile

Conosco bene l'onestà  intellettuale di persone come Rosy Bindi, Francesco Rutelli e Tiziano Treu e non metto in dubbio la trasparenza delle loro intenzioni quando parlano di prolungamento volontario dell’età pensionabile nè la corposità  e l'ineludibilità del problema che incombe non solo sul sistema previdenziale ma sulle prospettive stesse dell'occupazione in Italia, con l'invecchiamento della popolazione e, dall'altra parte, l'aumento delle aspettative di vita. Conosco bene l'onestà  intellettuale di persone come Rosy Bindi, Francesco Rutelli e Tiziano Treu e non metto in dubbio la trasparenza delle loro intenzioni quando parlano di prolungamento volontario dell’età pensionabile nè la corposità  e l'ineludibilità del problema che incombe non solo sul sistema previdenziale ma sulle prospettive stesse dell'occupazione in Italia, con l'invecchiamento della popolazione e, dall'altra parte, l'aumento delle aspettative di vita.

Quello che mi permetto di mettere in dubbio è il realismo e la praticabilità della loro proposta, di allungamento automatico dell'età pensionabile.

Perché di allungamento automatico e non volontario si tratta. Se no per quale ragione indicare la misura dei due anni, e non tre, o cinque come è nel traguardo (politico, non normativo) per il 2010, indicato, nel 2000, dal Summit di Lisbona? Si può parlare infatti di due anni entro una data certa, solo se si prevede che chi non decide di prolungare la sua attività oltre il termine precedentemente prescritto vedrà ridursi il trattamento di pensione al quale altrimenti avrebbe diritto.

Parlare di due anni entro una data certa significa prevedere, per chi non decide di prolungare la sua attività oltre il termine precedentemente prescritto, la riduzione del trattamento di pensione al quale avrebbe diritto.

E' questa  che appare una tagliola; anche se quasi certamente essa non sarà sufficiente a superare gli ostacoli culturali e strutturali che oggi si frappongono ad un allungamento consensuale dell'età lavorativa per tutti.

Ostacoli culturali: come pensare che una pratica e un costume pluridecennale, impersonato non solo dalle pensioni di anzianità ma dal ricorso sistematico ai prepensionamenti per le grandi imprese di produzione e di servizio, possano essere superati senza traumi e resistenze: (probabilmente anche a costo di scontare una riduzione delle pensioni misere che la grande maggioranza del lavoro dipendente può oggi aspettarsi)? Superare questi ostacoli sarà possibile soltanto se si parte dalla condizione necessaria (ma non sufficiente) che questa scelta sia effettivamente volontaria e, quindi incentivata e premiata da un aumento delle pensioni più che proporzionale agli anni di proseguimento dell'attività.

Ostacoli culturali: come imporre alle persone in carne ed ossa un prolungamento  delle attività che risultino usuranti, nocive o pericolose? Un anticipazione del ritiro dall'attività risulta più che mai necessaria per questi lavori; a meno che non sia garantito ai lavoratori interessati un attività diversa, con un relativo addestramento, in tempo utile per cambiare gli effetti negativi di tali lavorazioni, Questo avrebbe dovuto prevedere la stessa riforma Dini. Ma, fino ad ora, nulla di sostanziale è stato realizzato. Per questo, anche per questo, una politica complessa (non un decreto) dell'invecchiamento attivo presuppone delle forti innovazioni incentivate dell'organizzazione del lavoro, verso una più alta qualità del lavoro ed, eventualmente, diversi tempi di lavoro per i lavoratori anziani.

Ostacoli strutturali: che cosa comporta l'innalzamento obbligatorio dell'età pensionabile per un lavoratore che è disoccupato? Altri due anni di disoccupazione in attesa della pensione. Qui sta un altro dei limiti della riforma Dini, pensata per un mercato del lavoro fordista, quando ci troviamo di fronte ad un mercato della flessibilità e, per molti, della precarietà.
Per cui molti giovani che cominciano a pagare i contributi verso i 30 anni di età e molti anziani che perdono il lavoro intorno ai 50 anni debbono attendersi, a regime, delle pensioni non superiori al minimo vitale. Questi inconvenienti sarebbero aggravati dalla decontribuzione voluta dall'attuale governo; ma permarrebbero in ogni caso, se non fossero presi in conto ai fini previdenziali i periodi di disoccupazione e, soprattutto, se non viene fermata l'espulsione dal mercato del lavoro della grande maggioranza dei lavoratori ultracinquantenni.

Perchè questa è la realtà con la quale dobbiamo misurarci; non con dei decreti ma con una politica: la flessibilità del mercato del lavoro, la riduzione del salario e del costo del lavoro imposto ai giovani in cerca di prima occupazione, lungi dal creare nuovi posti di lavoro come sostiene il governo, rende sempre più conveniente alle imprese di liberarsi dei lavoratori  anziani, perchè più costosi e perchè necessiterebbero, in molti casi, una riconversione e una riqualificazione della loro attività. Il risultato è che, in Italia, sopra i 55 anni, lavora meno del 30% della popolazione di quella classe di età (contro il 70% in Svezia).

Si tratta allora di creare le condizioni per un intervento formativo che consenta una riqualificazione e, in alcuni casi, una riconversione dei lavoratori anziani, tenuto conto che le imprese da sole non hanno alcun interesse a investire sul fattore umano in un mercato del lavoro flessibile. Gli investimenti nel fattore umano come la ricerca e la formazione sono certamente rischiosi e producono il loro effetto solo a medio termine. Un tempo troppo lungo per un'impresa che punta esclusivamente ad una profittabilità immediata o che magari non ha le risorse per scommettere su una strategia di lungo respiro. Si tratta di quelli che gli economisti chiamano dei “fallimenti del mercato” che devono essere corretti con l’intervento pubblico.

Occorre allora disincentivare i licenziamenti delle categorie deboli (anziani, donne, portatori di handicaps) e finanziare una politica di formazione per tutto l'arco della vita (il che rappresenta un costo non piccolo per le collettività) che si accompagni ad un’organizzazione del lavoro che premi una mobilità professionale, verso l’alto, dei lavoratori.

Senza una politica del lavoro, complessa e non “divisibile” nei tempi, che si misuri con questi ostacoli culturali e strutturali e che costruisca, con il concorso dei sindacati e, con le prove in mano, un peraltro difficile consenso fra i lavoratori, a cominciare da quelli più sfavoriti, non c'è spazio per una politica pur così necessaria dell'invecchiamento attivo e per una riforma che sia veramente tale (e non il suo opposto) del sistema previdenziale.

Non a caso, contrariamente a quanto sostengono, con protervia e superficialità, alcuni commentatori pur provenienti dalla sinistra italiana, la Commissione Europea, come ricordava Romano Prodi nel suo discorso al Parlamento Europeo, il 21 gennaio scorso, ribadisce l’inderogabilità dei quattro pilastri della strategia di Lisbona e di una politica  dell'invecchiamento attivo: l'incentivazione del proseguimento dell'attività lavorativa e il superamento dei prepensionamenti; la dissuasione delle imprese che licenziano gli anziani e l'adozione di sistemi di formazione lungo tutto l'arco della vita; una rimodulazione delle forme di organizzazione del lavoro anche per favorire una migliore qualità del lavoro.

Perchè non partire da lì?