Per i primi cento giorni di centrosinistra

1. Nei primi 100 giorni, l’impegno di un governo di centro-sinistra sarà necessariamente assorbito soprattutto dall’avvio di un risanamento finanziario e dalle prime misure di incentivazione della crescita. “Non lacrime e sangue ma rigore” diceva Bersani. In questo ambito saranno certo necessarie alcune misure sociali di emergenza: la restituzione dei fondi tagliati alla sanità, il sostegno alla conclusione dei contratti e la restituzione del fiscal drag, la rivalutazione delle pensioni più basse e la costituzione di un fondo di sostegno per le persone non autosufficienti. Dubito però che si possa immaginare –almeno in termini di spesa- che si possa fare molto di più, in qualche mese, anche se si cambiano gli obiettivi, essendo tale l’eredità disastrosa e di lungo periodo lasciata deliberatamente del governo Berlusconi. Si può solo sperare che nella finanziaria del 2007 vi siano le prime misure efficaci sul fronte fiscale -dalle rendite finanziarie all’imposta sulle successioni- che sono state, a partire dalla rivoluzione francese, l’emblema di una società democratica.

2. Ma dobbiamo forse rassegnarci ad una politica dei due tempi e alla navigazione a vista, nelle quali rimane indeterminata e rinviata la definizione e l’avvio immediato di una strategia di riforme? Qui mi limito a parlare soltanto della grande questione della riforma del lavoro e del welfare, una delle priorità dichiarate dai governi riformatori.

Ma non lo credo. Deluderemmo tutti.

Esistono riforme che vanno definite, anche in termini di leggi e di regolamento, sin dai primi passi di un governo di centro-sinistra e che vanno rese pubbliche sin dall’inizio, se vogliamo lanciare al paese, al di là dei documenti che abbiamo fin qui elaborato e delle intese che raggiungeremo nell’Unione, dei messaggi forti, semplici ma impegnativi e vincolanti.

I tempi di attuazione di queste riforme dovranno necessariamente essere graduali nel loro finanziamento e matureranno i loro effetti solo nel medio temine, ma dobbiamo potere dimostrare che si parte da subito.
Per esempio una incentivazione della crescita che abbia capacità di durare e che coincida con un aumento della competitività del nostro sistema economico e amministrativo è inconcepibile se non coincide con l’avvio di uno sviluppo umano e sostenibile e se non è fondato sulle grandi priorità di un progetto di società del centro sinistra: l’investimento permanente nella ricerca e nella formazione lungo tutto l’arco della vita. Se non riorientiamo il nostro welfare in questa direzione non c’è alcuna possibilità di conseguire una piena e buona occupazione.

In secondo luogo sarà necessario e urgente superare la legge 30, come diceva Bersani, e sostituirla con una vera riforma del mercato del lavoro che completi la legge Treu, con l’unificazione e la rivalutazione dell’indennità di disoccupazione e soprattutto con la messa in campo di un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita che rivaluti il patrimonio di sapere dei lavoratori, che lo aggiorni in ogni momento, per le donne, i giovani, gli adulti, gli anziani e gli immigrati, con il contributo delle imprese, dello Stato e degli stessi lavoratori.

Bisogna, certo, eliminare molte figure contrattuali imposte dalla legge 30 che lasciano ai padroni la piena discrezionalità sul lavoro e la libertà dei lavoratori e che perciò distruggano il diritto alla contrattazione collettiva e alla concertazione. E bisogna cancellare gradualmente quello che fu un errore anche delle forze di sinistra e del sindacato. La decurtazione del salario per i nuovi assunti e per le donne anche con mentite spoglie non ha creato un solo occupato in più, ma ha discriminato i giovani e le donne, anche sul piano contributivo – sono d’accordo con il prof. Taurine - incentivando d’altra parte l’espulsione precoce dalle imprese di una massa sempre più grande di lavoratori anziani senza pensione.

Certo la precarietà del lavoro non si cancella per decreto. Così come non si può convincere i lavoratori anziani, che hanno bisogno anche loro di una riqualificazione permanente, a prolungare la loro attività, soprattutto quando sono disoccupati, aumentando per legge, l’età pensionabile, e soprattutto quando li attende in futuro una pensione miserabile.

Soltanto ristabilendo il primato della legge e della contrattazione collettiva, anche nella diffusione di un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, è concepibile che gran parte della flessibilità e della mobilità del lavoro si realizzi all’interno della stessa impresa o di un gruppo coordinato di imprese. E soltanto un forte investimento nella formazione lungo tutto l’arco della vita e non solo nella scuola e nell’università può assicurare una crescita professionale dei lavoratori e della lavoratrici, di qualsiasi età, che li renda più forti sul mercato del lavoro e di fronte agli incessanti processi di ristrutturazione.
Dobbiamo convincerci che non c’è altra strada, anche per difendere pienamente la libertà e la dignità del lavoratore e la sua possibilità di discutere non solo del suo salario, ma della sua riqualificazione, delle sue condizioni di lavoro e del tempo del suo lavoro.

E’ una strada difficile e faticosa, come quella di portare nelle più piccole località delle agenzie pubbliche del lavoro, capaci di orientare con l’uso di tutti gli ammortizzatori sociali finalizzandoli all’occupazione, le scelte personali dei lavoratori verso un’esperienza di lavoro verso un’esperienza di formazione. Ma è una scelta che non ha alternative né scorciatoie, come sono le varie forme di occupazione protetta e assistita che abbiamo conosciuto in passato.

E’ una scelta di Libertà. Questo deve emergere nei nostri messaggi ai cittadini. E’ una scelta di liberazione del lavoro dai mille condizionamenti di un’occupazione precaria e non altamente qualificata, che non contiene soltanto incertezze sulla possibilità che si rinnovi il contratto a termine, ma la liquidazione di fatto di tanti diritti, fino al diritto all’associazione, al contratto collettivo e allo stesso diritto di sciopero. Dobbiamo ridare dignità e libertà al giovane lavoratore precario che vede annullata la sua professionalità e il suo diritto all’iniziativa. Dobbiamo ridare dignità e libertà al lavoratore e alla lavoratrice che vedono allungarsi le loro prospettive di esistenza e, nello stesso tempo, accorciarsi il tempo del lavoro, della vita in comunità, e ridursi la possibilità di una vera inclusione nella società.

Dobbiamo ridare libertà e dignità al lavoratore anziano in buona salute che sceglie, volontariamente di proseguire, nella forma da lui scelta, un’esperienza di lavoro, sostenuta anche qui da una riqualificazione adeguata e dalla prospettiva di una pensione migliorata.

E’ questo l’invecchiamento attivo che può rompere l’isolamento di quel 70% di persone oltre i 55 anni, in Italia, che sono escluse dal lavoro e da un’attività sociale. Sono il 25% in Svezia.

Come il giovane lavoratore precario oppresso dall’impossibilità di decidere del proprio destino e di arricchire le sue conoscenze, non è libero. Così il disoccupato di 50 anni o il pensionato di 60 anni, costretti a giocare a carte con i propri amici per 20 anni della loro vita e che non hanno i mezzi per rischiarsi ad investire nei fondi pensione –e sono circa il 50% dei lavoratori in un paese come la Gran Bretagna-, non sono liberi di impegnare il loro tempo nella vita attiva e in un lavoro vissuto in comune con altri anche con un’occupazione volontaria e scelta, sostenuta da una copertura previdenziale pubblica. Anche questo diceva Lisbona.

Questo è quindi il grande messaggio che deve lanciare al paese una forza di sinistra. Ridare libertà e dignità al lavoro, impadronendoci del governo della conoscenza, per scongiurare la più drammatica frattura di questo nuovo secolo: quella “fra chi sa e chi non sa”. Ben al di là degli analfabeti di ritrovo. Quella fra chi viene escluso dalle decisioni dell’impresa e della politica e chi, conquistando il dominio del sapere, rimane anche padrone di sé stesso e libero di realizzare sé stesso.

Intervento pronunciato alla Conferenza nazionale per il programma, 2 dicembre 2005